Uffa!
Diffidare di Saint-Just e degli eredi stalinisti del giacobinismo
Ne "La vertigine della Rivoluzione" Stenio Solinas ricostruisce la storia dell'"Arcangelo della morte", braccio destro di Robespierre. Da Saint-Just a Trockij, l'orrore per chi vuole rifondare il mondo a partire da un colpo d’ascia
Alla mattina del 27 luglio 1794 a Parigi il Terrore messo in moto dai giacobini cambiò volto. Da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, ne divennero vittime quelli che lo avevano esaltato, che ne erano stati gli adepti estatici sino a magnificare “il fiume di sangue” da cui la Francia rivoluzionaria era protetta contro i suoi avversari. L’oratore principe di quella retorica, “l’Arcangelo della morte” come verrà chiamato, ossia il ventisettenne Louis Antoine de Saint-Just quella mattina aveva appena preso la parola alla Convenzione – a lungo il teatro dei suoi trionfi – che già i “termidoriani” gliel’avevano tolta subissandolo di ingiurie.
“Pallido in volto”, ha scritto Simon Schama (celeberrimo storico della Rivoluzione francese), “egli tornò a sedersi, mentre le accuse salivano di tono”. Lo stesso accadde al gran capo giacobino Maximilien-François-Marie de Robespierre quando tentò di prendere la parola senza però riuscire a connettere bene le sue frasi. “Il sangue di Danton ti sta soffocando”, gli gridò qualcuno. Tutto andò per le spicce, come a lungo avevano voluto e teorizzato i giacobini nei confronti dei loro avversari. Robespierre, Saint-Just e i loro amici vennero dichiarati hors de la loi, un’accusa che di per sé era una condanna a morte. Li vennero a prendere l’indomani, il 28 luglio.
Da quanto gli ha permesso di scorrazzare lungo le topografie della storia e della cultura francese, invidio al mio vecchio amico Stenio Solinas questo suo recentissimo libro dedicato a Saint-Just (La vertigine della Rivoluzione, Neri Pozza, 2020), dove scrive così: “Sono ventuno i condannati che il 10 termidoro le tre carrette del boia conducono nello spazio di un’ora e mezzo dalla Conciergerie alla odierna Place de la Concorde, tornata per l’occasione a essere lo spazio scenico dell’esecuzione. Offrono uno spettacolo straziante e assieme orribile, corpi insanguinati, vesti stracciate, gemiti che le urla della folla assiepata lungo il percorso coprono di volta in volta.
C’è François Hanriot, ancora coperto delle immondizie su cui era caduto, un occhio che pende dall’orbita, una guancia sfigurata. Robespierre ‘il giovane’ giace ai suoi piedi, le ossa rotte da un volo dai tetti dell’Hôtel de Ville mentre cercava di sottrarsi alla cattura; l’altro Robespierre, quello vero, ha la testa avvolta in un asciugamano sporco del sangue della mascella fracassata da un colpo di pistola, l’abito azzurro anch’esso macchiato; il paralitico Couthon è legato e accosciato sul fondo, la testa spaccata…”.
Il solo di quei condannati a morte che mantenga l’allure di quando era lui un vincitore della lotta politica è Saint-Just. Sino all’ultimo istante della sua vita, sino al momento di deporre la testa nell’incavo su cui tra un attimo affonderà la lama della ghigliottina, i suoi gesti sono controllati, come di chi non abbia nulla da rimproverare o da rimproverarsi. E del resto di tutti i personaggi chiave di quella terrificante tregenda che ha nome Rivoluzione francese, lui è quello che più ha suscitato l’attenzione dei poster novecenteschi, dal regista cinematografico Abel Gance a André Malraux, da Marguerite Yourcenar a Albert Camus (che ne fa una figura paradigmatica del suo L’homme Révolté), dal poeta René Char allo scrittore “di destra” Pierre Drieu La Rochelle, il quale aveva scritto di Saint-Just che era stato “un rivoluzionario pazzo e feroce” eppure il solo cui si potesse pensare “con amicizia”.
Lo scrive nel giugno 1939 sul settimanale dell’intellettualità di destra la più radicale, il Je suis partout, una rivista che per averci scritto sopra alcuni articoli incendiari Robert Brasillach lo pagò con la vita il 6 febbraio 1945. Un elogio del più feroce dei giacobini su un organo di stampa della destra radicale francese? Eppure è andata così, e quell’articolo fa un po’ da perno attorno a cui ruota il libro di Solinas, anche lui uno che viene dalla destra intellettuale e che non lo nasconde affatto, così come non aveva nulla da nascondere un uomo quale Drieu La Rochelle, morto suicida il 15 marzo 1945.
E difatti Solinas avvia sine ira la sua circumnavigazione del personaggio Saint-Just e della sua vertigine politica, quella che gli aveva fatto chiedere per primo la morte di Re Luigi e che quella morte non abbisognasse di alcun processo, che andava ghigliottinato per il solo fatto di essere stato il sovrano della Francia. Confesso di non seguire appieno Solinas su questa strada, quella di un rispetto umano per Saint-Just, tale è il mio orrore dei robespierristi sempre e comunque, del loro voler rifondare il mondo a partire da un colpo d’ascia che ne sfracassi il più possibile.
In questo sono forse annebbiato dal fatto di guardare ai giacobini francesi di fine Settecento attraverso il prisma rappresentato dai loro eredi del XX secolo, la congrega criminale staliniana, quella di un paese dove quando il capo dell’armata aerea russa va da Stalin a dirgli che i loro aerei da combattimento sono inferiori a quelli dei nazi, il “piccolo padre” lo fa fucilare per poi sterminare tutta la sua famiglia. Sì, non posso non odiare i giacobini da quanto odio i boia staliniani e la loro vertigine del potere politico assoluto e illimitato.
E a questo proposito non è un caso che quando ho letto il libro di Solinas, ero reduce dall’aver visto su Netflix le otto puntate di una serie televisiva (russa) dedicata a un uomo che in fatto di vertigini della politica rivoluzionaria sta al vertice assoluto del Novecento, il bolscevico russo Lev Trockij. Interpretato da un famoso e suggestionante attore russo, Konstantin Khabenskiy, era la prima volta che Trockij compariva su uno schermo cinematografico. Girata in Russia nel 1917, in occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, la serie venne proiettata su un canale televisivo russo parallelamente a una serie analoga dedicata a Lenin. In fatto di ascolti, Trockij batté nettamente Lenin e come dar loro torto quanto al carisma dei due rispettivi personaggi.
Ma il punto fondamentale della serie è un altro, e cioè che in tema di “vertigine della rivoluzione” Trockij viene presentato tutto fuorché come un galantuomo rispettoso dei propri avversari politici. Al produttore russo della serie, Konstantin Ernst, hanno chiesto se le cose sarebbero state meno sciagurate in Urss ove alla guida del partito bolscevico Trockij avesse battuto Stalin. “No, non lo sarebbero state affatto”, ha risposto. E difatti la serie centra al cuore un episodio e una tragedia di cui io stesso non sapevo nulla.
Il Trockij comandante dell’Armata rossa fa processare e fucilare l’eroico comandante della flotta russa del Mar Baltico, il trentaseienne capitano Aleksej Shchastnyj, il quale nel 1918 era riuscito a mettere in salvo tutte e 236 le unità della flotta russa, ivi comprese sei corazzate. Geloso della popolarità di Shchastnyjj e irritato dalla sua indipendenza di giudizio, Trockij monta contro di lui un processo che più “staliniano” – ossia basato sul nulla – non si può. Inutile dirvi che quei quattro minchioni di trockisti ancora sparsi per il mondo hanno riempito di insulti la serie Netflix.