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Il dramma di Umberto Saba in quell'antro oscuro che fu la sua libreria
Viaggio nell'underground sentimentale triestino
Trieste e dintorni è una chiazza d’Italia dove la superficie delle cose pubbliche e il loro underground sentimentale fanno un tutt’uno, nel senso che la scorza e l’apparenza del reale sottende e manifesta sempre un qualcosa di nascosto, di retrostante, una sorta di ambiguità profonda e decisiva. Così è stato della mitologica libreria antiquaria triestina che Umberto Saba aveva apprestato a via San Nicolò 30 nel 1919 e che sussiste tuttora, diretta da Mario Cerne, il figlio del Carletto Cerne che per trent’anni e passa a via San Nicolò – a pochi passi da dove c’è oggi una statua che raffigura un Saba in piedi che sta camminando poggiandosi su un bastone – era stato il braccio destro e poi il socio del poeta triestino (nato nel 1885, morto a Gorizia il 25 agosto 1957).
La superficie delle cose, ossia quella vetrina e appena entri le due stanze dell’“antro oscuro”, nella prima delle quali è accampata la poltrona dove Saba sedeva ad accogliere i suoi clienti e a conversare con loro. Immensamente più reale e direi furente l’aura simbolica di quelle due stanze, l’underground sentimentale di una libreria che a Trieste conoscevano e frequentavano in pochi e Saba se ne disperava, le orme che vi sono come impresse dai tanti che ci entrarono, uno dei quali Benito Mussolini che chiese il prezzo di un libro di Domenico Settembrini. Ancora una decina d’anni fa non ero mai stato a Trieste un solo minuto della mia vita finché a sera tarda una mia amica che viveva a Udine non mi condusse fino alla porta sprangata della libreria di via San Nicolò. Ne emanava una tale luce, una tale violenza simbolica che decisi di fare un libro dedicato alla Trieste di Umberto “Chopin” Poli detto Saba e di Italo Svevo (In una città atta agli eroi e ai suicidi, Milano, Bompiani, 2011).
Ora se c’è uno che vive a Trieste, e che per giunta fa anche lui il libraio antiquario, e che di Trieste conosce tutti gli anditi e tutte le superfici ma che immediatamente ne afferra e ne esplora l’underground retrostante e dunque i significati nascosti, le verità ulteriori, è Simone Volpato. Lo fa da anni. Da via San Nicolò 30 a via Cassa di Risparmio 1, sede della casa di Anita Pittoni, quella che nel secondo Dopoguerra ha tenuto accesa la fiaccola della triestinità sotto forma di una piccola ma prelibata casa editrice che continuava a vantare gli scrittori triestini, c’era una distanza di 270-350 passi, ossia un percorso di quattro minuti a piedi. Ebbene quando la Pittoni ottantunenne è morta dimenticatissima nel 1982 le sue carte e i suoi libri erano stati raggrumati nei sacchi della spazzatura e giacevano in uno scantinato.
Dove Volpato li trovò e li restituì alla memoria culturale del nostro paese. Lo stesso per quel che è dell’eccezionale biblioteca dell’avvocato e bibliofilo Cesare Pagnini (era stato podestà di Trieste fra il 1943 e il 1945), uno che le edizioni originali dei libri dei grandi triestini del Novecento le aveva salvate e collezionate, attingendo innanzitutto alla libreria Saba. Alla sua morte, nel 1989, di quei libri rari e rarissimi nessuno se ne curò e finché su quei libri non si avventò il prode Volpato. Tesori e tesori e tesori.
Nel tempo Volpato ha acciuffato i libri della biblioteca personale di Carlo Michelstaedter, e più di recente quelli di un altro celebre collezionista triestino, il notaio Manlio Malabotta, uno al quale Saba aveva venduto sei quadri a olio di Filippo De Pisis, probabilmente acquistati da Giovanni Comisso, uno dei suoi clienti tra anni quaranta e cinquanta. Eccome se è cambiata la consapevolezza che abbiamo oggi della cultura triestina del Novecento dopo tutto quello che ne ha estratto Volpato, il quale dice di se stesso che si muove rasoterra come una talpa e avvista pietruzze (talvolta diamanti) che altri non avevano visto.
Il suo viaggio inesausto nell’underground triestino Volpato, in combutta con Marco Menato direttore della Biblioteca statale Isontina di Gorizia, lo ha perfezionato in questo suo ultimo libro, Immondi librai antiquari, in uscita nei primi giorni di dicembre per conto dalla milanese Biblion Edizioni. Imperdibile dalla prima all’ultima pagina in ragione del maremagno di informazioni che ci fornisce sul Saba libraio, editore, poeta e persino lettore, il clou ne è offerto dai documenti relativi al rapporto di Saba con il suo ultimo medico, Umberto Levi, quello che nella clinica San Giusto di Gorizia lo assistette negli ultimi e dolorosissimi anni della sua vita, segnati fra l’altro dall’agonia e dalla morte della moglie Lina. Il loro era stato un rapporto ambivalente, nel senso che Saba lo apprezzava come medico ma lo temeva come uomo e tanto più che Levi lo sfidava dicendogli che Giovanni Pascoli era un poeta ben più grande di lui, cosa che mandava in bestia l’autore del Canzoniere.
Tra i due è una sorta di braccio di ferro, con il tossicodipendente Saba che chiede a più non posso sempre altre pasticche di Pantopan Roche, un medicinale ben noto ai medici che curano le malattie mentali, e che pur di averle promette a Levi di regalargli dei libri rari. Un rapporto talmente complesso nel dare e nell’avere reciproco che Saba in una lettera a Levi arriva a fargli una confessione drammaticissima, e questo nel dirgli quanto ambivalente di odio e di amore fosse stato il suo rapporto con il lavoro fondamentale della sua vita, la sua libreria, quanto lacerante fosse l’underground di quel rapporto: “In quella libreria ho sempre convissuto con il senso di colpa di aver spinto a morire due giovani ragazze di cui amai con fervore la loro giovane carne; due sorelle che per la vergogna di tale sentimento e per aver sottratto dei libri decisero di uccidersi. E per me che ebbi tanta parte di questa loro decisione, giocando sulla loro giovinezza, fu una continua fonte di ansia e di dolore convivere con la loro morte. La libreria fu il luogo della loro morte e ciò è la pena. Caro dott. Le chiedo di non far mai parola di quanto io gli ho ora confidato e sappia che ho cercato di essere una buona persona. E quando morirò mi ricordi, almeno lei, come una buona persona che spesso cadeva nel gusto di far male. Mi ricordi come persona e non come poeta… non lo sono mai stato”.
Terrificante. Qualcosa ne sapevamo, qualcosa era stato alluso dal giornalista Roberto Curci in un suo libro del 2015 che non vedo l’ora di leggere (l’ho ordinato su Amazon, non mi è ancora arrivato), qualcosa era stato adombrato nella biografia che Stelio Mattioni (uno scrittore triestino di cui è un delitto che sia menzionato così raramente) aveva dedicato a Saba nel 1989 (Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia editrice).
Qui c’è molto di più. Una confessione nuda e cruda. Quelle che per un breve tempo furono le due prime commesse della libreria, le sorelle Margherita (nata nel 1899) e Malvina Frankel (nata nel 1901) – peraltro imparentate a Saba per via della moglie Lina – si erano successivamente date la morte, la prima il 19 aprile 1922, la seconda il 20 giugno 1922, perché non riuscivano a sopportare l’onta di quel che era successo fisicamente tra loro due e il poeta allora trentasettenne. E non azzardo più una sola parola su un caso talmente terrificante.