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Nuoro e l'Italia senza eroi raccontate da Salvatore Satta, intellettuale dimenticato
Da “Il giorno del giudizio” al “De profundis”. Lo scrittore sardo, uno dei grandi del Novecento, si autodefiniva “tormentoso a me stesso e forse agli altri”
E siccome c’è un Dio che vigila sui destini dei bibliofolli, da vent’anni che la cercavo l’ho finalmente trovata una copia della prima edizione de “Il giorno del giudizio” (Cedam, 1978) di Salvatore Satta, il grande giurista sardo nato nel 1902 a Nuoro e morto a Roma il 19 aprile 1975. Anche se è dieci volte più rara, l’ho pagata la metà di quanto varrebbe oggi una copia della prima edizione de “Il Gattopardo” (Feltrinelli, 1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un romanzo che per più versi gli è attiguo e cugino. Entrambi scritti da due uomini che vivevano con la testa rivolta al passato e che erano profondamente connaturati a un’Italia “altra”, rispettivamente la Sardegna e la Sicilia. Ma soprattutto due libri che i due autori non videro mai e che forse non si aspettavano che avrebbero mai visto la luce. Tomasi di Lampedusa morì in una clinica romana con accanto il comodino su cui riposava la lettera con cui Elio Vittorini gli diceva che il suo romanzo non lo avrebbe pubblicato. Peggio che andar di notte, Satta aveva scritto non per essere pubblicato ma perché “entrato in pensione” non aveva più nulla da fare, se non fare i conti con la sua vita e con la sua terra d’origine. Non aveva detto a nessuno dei suoi famigliari di quel romanzo, non fosse stato che dopo la sua morte ne ritrovarono il dattiloscritto in un cassetto.
Per un atto di affetto verso la sua memoria, la casa editrice Cedam di Padova (quella che aveva pubblicato i suoi monumentali e celeberrimi testi giuridici) lo pubblicò non sappiamo in quante copie, ciascuna al prezzo di 5.500 lire. Mille, duemila? Fatto è che nessuno se ne accorse, che nessuno ne parlò (se è per questo la Feltrinelli aveva pubblicato in tremila copie il libro di un autore a quel tempo sconosciutissimo e su cui sarebbe stato azzardato scommettere. A un mese dalla prima edizione, “Il Gattopardo” cominciò a vendere in una misura talmente straripante che ne facevano un’edizione a settimana). E siccome c’è un Dio che veglia sui destini dei libri, un qualche amico di Satta mise una copia del romanzo sul tavolo di redazione dell’Adelphi, peraltro una casa editrice la cui maniera letteraria prediletta era apparentemente lontanissima dalle stimmate de “Il giorno del giudizio”. La prima edizione Adelphi porta la data del febbraio 1979. Nel tempo ne hanno venduto qualcosa come 200 mila copie. La copia Adelphi che io acquistai più di vent’anni fa era una copia della sesta edizione, datata febbraio 1991. Una copia che non ho mai neppure aperto, perché in onore di Satta volevo leggere il suo libro nella carta e nella grafia della prima edizione.
Finalmente è successo. Un libro da incanto che ti viene voglia di leggere a voce alta, in modo da bissarne l’infinita musicalità. Un libro miracoloso da quanto è perfetto in ogni suo passaggio, particolare, personaggio minore. Un libro immenso e seppure sia esclusivamente centrato sulla vita – ridotta all’osso – di una Nuoro che vantava all’alba del secolo poco più di 7.000 abitanti: “Questo in fondo era il grande problema di Nuoro. C’erano preti, c’erano avvocati, medici, professionisti, mercanti, c’erano poveri manuali, il ciabattino e il muratore, il maestro delle scarpe e il maestro del muro, c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. Di un paese, come del mondo, forse. Perciò non vi era odio, non vi era amore: c’era la contestazione dell’altro, che diventava la contestazione di se stessi. L’odio e l’amore si compensavano e si componevano nella necessità di conservare gli altri per conservare se stessi”.
Satta non aveva nulla in meno dei grandi scrittori mitteleuropei prediletti dalla Adelphi. Di più.
Personaggio lontanissimo dalle voghe correnti (ai tempi del referendum del 1946 sulla monarchia, scrive alla moglie di essere diventato “un fierissimo monarchico” dopo aver visto passare un corteo repubblicano di gente che vomitava ingiurie in un italiano zoppicante), uno che si autodefiniva “tormentoso a me stesso e forse agli altri”, è stato uno dei grandi intellettuali italiani del Novecento, a cominciare da come originalmente trattava la scienza giuridica e “il mistero del processo”. In realtà il romanzo da cui ho preso le mosse non era il suo primo tentativo di cimentarsi con l’arte della scrittura. Poco più che quarantenne, nel bel mezzo della guerra civile italiana, Satta aveva cercato riparo nella casa di campagna veneta della moglie Laura (sposata nel maggio 1939). In quell’eremo, da cui per ben 64 volte aveva visto aerei alleati bombardare invano un ponte che protendeva “i suoi fragili archi” a 800 metri da casa sua, Satta scrisse il “De profundis”, un libro di cui è smagliante la tessitura, a metà strada tra il pamphlet e il racconto. Di certo il libro più importante tra quelli consacrati alla “morte della patria”, ossia alla tragedia specificamente italiana entro alla tragedia della Seconda Guerra mondiale.
Nel libro non c’è mai un nome e cognome, mai un cenno ai partiti politici che in quel momento operavano in Italia, mai una volta che venga usata come risolutiva la diade fascismo/antifascismo. Né più né meno che nella Nuoro dell’alba del secolo, tutto è ridotto all’osso nella narrazione di Satta. A cominciare dal racconto dei protagonisti della caduta del fascismo e del successivo armistizio, tra luglio e settembre 1943, fatti in cui l’antifascismo italiano non ebbe il benché minimo ruolo. In un paese che aveva dichiarato guerra a mezzo mondo senza minimamente credere a quella guerra, la libidine della disfatta venne messa in moto dal bombardamento dell’11 luglio 1943 che provocò a Roma 3 mila morti e 11 mila feriti. Dopo di che, scrive Satta, “due dozzine di uomini vestiti d’orbace si riunirono in un palazzo di Roma, e dopo una discussione che le cronache dicono tempestosa, posero fine con un ordine del giorno a venti anni di regime”. A quel punto assursero alla prima linea della decisione politica “un monarca che dopo avere cercato la sua salvezza nel regime la cercava nella sua rovina”, nonché “un generale creato alimentato e pasciuto dal regime che non essendo riuscito ad essere l’artefice di una facile vittoria cercava di essere l’artefice di una facile sconfitta”.
Figuratevi se un libro simile, che non indicava un solo eroe perché di eroi in quel frangente l’Italia non ne aveva avuti, fosse “leggibile” nell’Italia del 1948. Alla Einaudi, alla quale Satta lo aveva offerto, dovettero restarne allibiti. E dove erano andati a finire i meriti dell’antifascismo? Nella voce dell’Enciclopedia Treccani dedicata a Satta, si fa cenno di uno scambio epistolare tra lui e Massimo Mila, un “azionista” convinto che la passione antifascista fosse una merce alla portata di tanti. Dové essere un dialogo tra sordi da quanto erano lontani i loro rispettivi punti di vista. Il libro lo editò anche quello la Cedam nel 1948 e rimase del tutto introvabile, finché nel 1980 non lo ripubblicò la Adelphi.