Pietre d'inciampo a Roma (LaPresse) 

uffa!

I Sabatello e gli altri. Storie della deportazione, prive di pietre d'inciampo

Giampiero Mughini

Il destino di molti ebrei romani negli anni dell'occupazione dipendeva dal caso: un soldato che fingeva di non vedere, una parola sussurrata da un amico poco prima dell'arresto. I racconti dei sopravvissuti

E’ come se da quasi dieci anni avessi un debito con la famiglia romana ebrea di nome Sabatello, sette dei quali tra i due genitori, tre figli e due cuginetti vennero prelevati dai nazi alla mattina del sabato 16 ottobre 1943 e condotti a morte nel campo di annientamento di Auschwitz. Avevano trascorso la loro ultima notte nella casa di cinque stanze al secondo piano del numero 240 di viale del Re (oggi viale Trastevere), un palazzetto a cento metri dalla casa in cui abito e che è restato tale e quale alla mattina del 16  ottobre. Nello scrivere un mio libro dal titolo Una casa romana racconta, la tragedia dei Sabatello l’avevo raccontata fin dalle primissime pagine. Stando alla documentazione di cui disponevo avevo intercettato purtroppo solo quattro delle vittime, tre le avevo completamente omesse finché non ho incontrato due Sabatello di terza generazione (figli di due dei cinque figli sopravvissuti) che mi hanno raccontato com’erano andate le cose quel 16 ottobre. 

L’avere omesso quelle tre vittime la vivevo come una colpa, e tanto più che ai piedi di una casa dove i nazi hanno assassinato ben sette persone non esiste una sola Stolperstein, una pietra di inciampo di quelle che ce n’è tante nel ghetto romano e nei quartieri adiacenti. Quei sampietrini quadrati da 10 centimetri con sopra una lastra sottile di ottone lucido su cui sta scritto un nome e cognome, la data dell’arresto e quello della morte. Quel toccante stenogramma su cui “inciampa” la memoria che s’era inventato nel 1993 un artista tedesco, Gunter Demnig, e che a partire dal gennaio 2010 Adachiara Zevi (figlia dell’architetto Bruno Zevi) ne ha fatti apporre molti sull’acciottolato di una città dove erano stati mille gli ebrei rastrellati e mandati a morte.

Ci passo quasi ogni giorno davanti al numero 240 di viale Trastevere e quasi ogni giorno cerco di rappresentarmi quelle ore talmente atroci. Il camion dei nazi con la croce celtica iscritta in bianco su una fiancata dové arrestarsi innanzi al 240 di viale del Re poco dopo le cinque del mattino. Avevano l’ubicazione esatta di dove abitavano le famiglie ebree romane, che erano numerose nei quartieri del Testaccio e di Monteverde. Bussarono al portone, montarono al secondo piano, entrarono, da una sorta di volantino rettangolare bilingue lessero quel che gli ebrei dovevano fare, portare con sé, di che mangiare qualche giorno, le carte di identità, i gioielli di famiglia. I sette ebrei erano papà Angelo (nato nel 1893), sua moglie Costanza Citoni (nata nel 1897), il loro secondo figlio Carlo (nato nel 1920), il loro sesto figlio Umberto (nato nel 1927), il loro settimo figlio Franco (nato nel 1929). Dei loro otto figli ben cinque non avevano dormito a viale del Re quella notte e dunque si salvarono. In più, atrocità del destino, quella notte erano rimasti a dormire i due cuginetti Sergio e Umberto Mieli di dieci e undici anni, figli di una sorella della signora Costanza e che pure abitavano con i genitori a pochi metri di distanza, una casa dove i nazi quella mattina non irruppero. La morte e la vita distavano l’una dall’altra poche decine di metri il 16 ottobre 1943.

Alle spalle dell’abitazione dei Sabatello, sulla cui terrazza il loro primogenito Settimio aveva festeggiato sedici giorni prima il suo matrimonio, abitava un’altra famiglia ebrea, i Del Monte, marito, moglie e tre figli. Il caso fu loro favorevole. Un amico bussò poco prima delle cinque, avvisandoli che i nazi erano in arrivo. Loro si precipitarono a viale del Re, dove videro due romani che indossavano entrambi un impermeabile e un cappello Borsalino. Quando i due chiesero a Del Monte padre se fossero ebrei, lui si sentì gelare. E invece erano due bravi italiani e li avvisarono che un camion nazi era già a poche centinaia di metri di distanza. Montarono su per i viottoli di Monteverde e trovarono alloggio in un convento cattolico che li nascose per tutto il tempo dell’occupazione nazi. Migliaia e migliaia di ebrei romani quel giorno si salvarono più o meno così, magari perché un soldato tedesco faceva finta di non vedere che un bambino veniva tratto via dal gruppo dei rastrellati. Tutto dipendeva da una parola sussurrata da un amico, dal caso. Federico Coen, il direttore del Mondoperaio degli anni ruggenti, mi raccontò che la sua famiglia abitava in quel momento a via dei Giubbonari e che mentre lui e suo padre stavano tornando a casa il portiere uscì dal portone e fece loro un segno che diceva tutto. Al che i due se la diedero a gambe. C’è un libro meraviglioso che racconta quei momenti della Roma mutilata e offesa, il 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti pubblicato su carta così e così ad appena un anno di distanza dalla tragedia. Herbert Kappler, che s’era detto contrario alla razzia, avvisò Berlino che la popolazione romana era stata contro di loro, fascisti ivi compresi, e che dei diecimila e passa ebrei romani che costituivano il loro bersaglio avevano potuto acciuffarne solo poco più di mille.

L’Angelo Sabatello di terza generazione (nato nel 1947 dal terzo dei figli Sabatello, Armando) mi ha raccontato a sua volta di come suo padre e i suoi zii riuscirono a sopravvivere, alcuni di loro protetti e nascosti nella casa della signora di origine veneta Lia Brandolini. Metà dei Sabatello ebbero una sorte avversa, metà una sorte favorevole. Metà partì dalla stazione Tiburtina il lunedì mattina e ci mise sei giorni ad arrivare ad Auschwitz-Birkenau, dove una parte dei Sabatello furono “selezionati” sulla rampa e gli altri morranno durante la detenzione. Angelo mi ha regalato la copia di una foto straziante che suo zio Carlo aveva lanciato dal treno con un saluto alla fidanzata. Mi ha anche raccontato della sua delusione quando seppe che in occasione della celebrazione del 25 aprile di alcuni anni fa la Brigata ebraica era stata insultata dai manifestanti.

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