uffa!
Davvero Scalfari desiderava un giornale senza sport?
Un po' si credeva davvero che le pagine sportive fossero meno nobili di quelle dedicate a politica e simili, nell’Italia culturalmente arretrata di allora. Ma raccontare lo sport è letteratura, nelle sue espressioni più dolorose e più avvincenti
Il primo numero della Repubblica, quello che sarebbe stato l’evento giornalistico italiano più importante dell’ultimo mezzo secolo, uscì il 14 gennaio 1976. Pochi giorni prima Eugenio Scalfari ne annunciò il debutto in una sala romana di via della Mercede, non lontana dal Caffè Aragno dove si radunavano gli intellettuali romani degli anni Trenta. Fra quelli che lo ascoltavamo io ero seduto in seconda fila. Scalfari disse che due sarebbero state le peculiarità del suo quotidiano. Non si sarebbe mai occupato di sport e non avrebbe pubblicato una foto che fosse una. Se davvero la Repubblica si fosse attenuta a quel programma, nelle sue sei paginate iniziali ieri non ci sarebbero stati né il volto né il nome né l’abbraccio fraterno di Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi, i due atleti che domenica pomeriggio hanno mandato in estasi noi italiani tutti. Perché in fatto di potenza di fuoco emotivo lo sport supera qualsiasi altro evento teatrale, dato che la sua platea non è grande quanto una saletta o una sala e bensì quanto il mondo intero. Valga per tutti quello che mi ha raccontato ieri il mio amico Saverio Salvan, che fa l’avvocato a Padova e che non sbaglia un giudizio che sia uno: la domenica pomeriggio dopo i due ori azzurri gli ha telefonato il padre ottantaduenne che non riusciva a parlare perché stava piangendo.
Dal grande giornalista che è, Scalfari ci mise poco a capire che il suo programma iniziale – quello di fare a meno dello sport – fosse delirante sul piano culturale ancor prima che su quello giornalistico. Che ne sarebbe venuto un giornale più povero e niente affatto un giornale più snob. Non ricordo più quanti numeri del quotidiano romano uscirono davvero orbi di sport e di fotografie. Di sicuro Scalfari appena poté sottrasse a un quotidiano concorrente e remunerò lautamente Gianni Brera, quello che non era il maggiore giornalista sportivo italiano e bensì uno dei maggiori scrittori italiani della sua generazione. Di certo noi lettori della Repubblica abbiamo goduto nel tempo delle pagine che portavano la firma di Gianni Clerici, Gianni Mura, Emanuela Audisio, di cui ho scritto una volta che è la scrittrice italiana più attigua alla maniera di Ernest Hemingway, quello che aveva scritto alcuni racconti sulla boxe che stanno al vertice della letteratura novecentesca.
Com’è possibile che ci sia stato un momento in cui il più grande giornalista italiano del Novecento potesse pensare che i fatti e i protagonisti dello sport agonistico costituissero uno spicchio irrilevante dell’esperienza umana? Se è per questo io ho sentito pronunziare dalla bocca di Brera, che ero andato a intervistare negli anni Settanta, la seguente frase: “Spero che i miei figli abbiano un avvenire professionale migliore di quello che ho avuto io”. Un po’ ci faceva, mentre nel conversare con me aveva appena stappato una squisita bottiglia di vino prelevata dalla cantina, un po’ Brera lo credeva davvero che le pagine sportive di un quotidiano cui lui aveva dedicato la sua vita professionale fossero un po’ meno nobili di quelle dedicate alla politica et similia, e questo perché lo credevano in tanti nell’Italia culturalmente arretrata di allora. Basta fare un paragone con gli Usa, lì dove Don DeLillo dedica a una partita di baseball pagine e pagine di un suo grande romanzo, dove Cassius Clay assurge al rango di eroe nazionale, dove il cinema migliore attinge a piene mani dalle cronache sportive, dove l’inarrivabile Marilyn Monroe sposa un campione dello sport.
Un altro che ci mise del suo nello sfottere il pregiudizio “italiota” in tema di sport fu Luciano Bianciardi, di cui erano deliziose le collaborazioni al settimanale Guerin sportivo modellato dal conte Alberto Rognoni. In un suo pezzo pubblicato dall’Europeo, Bianciardi si rivolge a un contadino sardo e gli chiede “Ma a lei che gliene viene se il Cagliari di Gigi Riva vince?” e quello gli risponde a tono: “E che me viene se perde?”. Per quanto poi mi riguarda, io devo tutto allo sport agonistico. Ho cominciato a diventare quello che sono nella palestra dove mi esercitavo agli attrezzi della ginnastica artistica, lo sport di Franco Menichelli, Juri Chechi, Igor Cassina. Ho imparato lì la durezza della preparazione alla gara, il rischio individuale, il coraggio, la lealtà nello scontrarti con un avversario, l’accettazione della sconfitta senza la quale è impossibile vivere. L’ho imparato in palestra, non certo nell’aula del liceo “bene” della mia città dove mi annoiavo a morte nell’essere tempestato dai verbi irregolari greci o dal sacerdote che chiudeva ciascuna sua lezione di filosofia con una citazione di San Tommaso. Noia noia noia.
Ecco perché trovo talmente immane, talmente prepotente sul piano della sollecitazione emotiva, un destino come quello di Tamberi, il nostro saltatore in alto che s’era sfrantumato una caviglia a 23 anni poco dopo aver superato la soglia mostruosa dei 2,39 metri. Aveva tutto e in un momento non ha avuto più nulla. Ha ricominciato da zero che è zero. S’è finalmente tolto il gesso. Ha recuperato i suoi gesti uno a uno, la rincorsa, lo stacco, l’avvitamento in aria, il colpo di reni e di addominali a scaraventare verso l’alto le sue gambe e superare l’asticella sfiorandola soltanto con la schiena. Quei gesti quei tentativi quello sforzo inumano lo ha riprovato giorno dopo giorno per cinque anni della sua giovinezza. La sua intera giovinezza dedicata a un supremo gesto agonistico. E poi quella cosa che è dello sport e di nessun’altra contesa al mondo, l’abbraccio tra chi ha vinto e chi ha perso. Raccontare tutto questo è un giornalismo un tantino inferiore, un tantino secondario rispetto allo scrivere di qualcuno dei superuomini grillini e tanto per fare un esempio? No, è letteratura. È vita nelle sue espressioni assieme più dolorose e più avvincenti.