Uffa
Un'età d'oro per la grafica, la musica, il fumetto. E un prologo dell'inferno
Spulciando un catalogo di libri e libelli degli anni 70: una sequenza di titoli e di occasioni editoriali in cui l’aspetto visivo la fa da padrone. Letteratura in grado di ispirare capolavori e grandi opere. Ma anche il terrorismo
Mi è appena arrivato, datato novembre 2021, un catalogo della libreria antiquaria milanese Librisenzadata e immediatamente mi sono precipitato a spulciare quale delle 179 voci del catalogo volevo che entrasse a far parte della mia biblioteca. Se uno dei fascicoli con la sigla editoriale Puzz che Max Capa si scriveva e disegnava quasi da solo negli anni Settanta, oppure la splendida foto scattata da Roberto Masotti al frontman degli Area Demetrio Stratos, oppure il libello dal titolo “Proposta di lavoro politico” ciclostilato nel dicembre 1968 (e dunque la sua carta lievemente arrugginita dal tempo) su cui due studenti non da poco della Facoltà di sociologia di Trento, Renato Curcio e Mauro Rostagno, è come se avessero inscritto le tracce primigenie dell’imminente terrorismo rosso, un fascicolo di cui mi vengono i brividi a sfogliarlo adesso dopo che lo avevo letto cinquant’anni fa e di cui dirò appresso. Tra parentesi è il pezzo più raro e importante del catalogo, quotato com’è 3.800 euro.
Emanuela Biliotti è un’accorta libraia milanese che da anni s’è specializzata nel radunare e offrire i materiali cartacei di un’epoca effervescente, i libri ma ancor meglio le riviste e i volantini e i poster nati dalla “contestazione” degli anni Sessanta/Settanta, ivi compresi quelli che portano il marchio dei terroristi “rossi”. Non che questa mia pulsione collezionistica sia necessariamente una compiacenza ideale verso i tipi e i tipacci dei Settanta, è che lo devi sapere ben bene quali fossero le idee, gli umori e le fisime di anni che hanno cambiato la fisionomia della società italiana, il “Settantasette” (in particolare bolognese) molto più che non il “Sessantotto”. Idee e umori con cui ognuno di noi s’è confrontato e ne è venuto fuori diverso. Era stata Emanuela a maneggiare, alcuni anni fa, una collezione rilevante di quei materiali, la collezione personale di Dario Fiori, lo scrittore architetto e agitatore culturale (nato a Sassari nel 1950, morto a Milano nel 2008), protagonista eclettico e dei più vitali di quella stagione.
La collezione Fiori la comprò la Biblioteca dell’Università di Yale, quella che da anni sta succhiando via il meglio del made in Italy cartaceo targato Settanta, e temo sarà troppo tardi quando le biblioteche italiane se ne accorgeranno. Quando si accorgeranno che nasce in quegli anni la grafica dei giornali italiani la più moderna e persuasiva, che quella è l’età d’oro del fumetto italiano il più smagliante (da Andrea Pazienza a Stefano Tamburini a Filippo Scozzari), che gli stilemi culturali adoperati da Franco Berardi detto “Bifo” o da Gianni Emilio Simonetti sono tra i più notevoli dell’avanguardia italiana dell’ultimo Novecento. E a non dire della musica, dagli Area agli Skiantos a una buona parte del prog italiano dei Settanta, dove non ci sarebbe stato niente di niente – né una sola parola di una canzone né una sola nota musicale – senza quel pubblico di giovani inebriati e furenti, senza quei raduni musicali, senza quella moda (nata nell’Inghilterra di Mary Quant e dintorni), senza quelle inedite sintonie e tensioni tra il maschile e il femminile di cui il nascente femminismo faceva da sismografo.
Ma torniamo alle 179 esche offerte da Emanuela Biliotti. È tutta una sequenza di titoli e di occasioni editoriali in cui l’aspetto visivo la fa da padrone, sopravanzando di un tanto il “sinistrese” dei testi, frasi com’erano con 40 o 50 vocaboli sempre gli stessi e messi sempre allo stesso posto, roba che se la prendi in mano adesso non arrivi alla fine di un soggetto predicato e complemento. Con delle eccezioni. Mi è piaciuta molto (ed è la prima delle cinque cose che ho comprato) la voce al numero 5 del catalogo, ed era l’ultimo numero pubblicato negli anni Settanta dal quotidiano Lotta continua allora diretto da Enrico Deaglio. Bellissima la copertina: una bottiglia di champagne cui stava saltando il tappo, con su scritta la dizione “Chi è senza peccato stappi la prima bottiglia”. Sotto l’immagine della bottiglia una sorta di lunga didascalia: “Il pranzo è in tavola; il minestrone saporito degli anni 70 sta per essere servito sul desco della storia. C’è stato di tutto e qualche politologo un po’ rétro potrebbe indifferentemente parlare di geometrica potenza. O di terribile bellezza. Abbiamo assistito in molti a una lotta feroce e continua fra la spietatezza del Tempo e la Resistenza dell’Innamoramento”.
Ecco, questa era tutt’altro che “sinistrese” e bensì della buona letteratura. E difatti io che non leggevo quasi mai il Lotta continua del tempo della campagna contro il commissario Luigi Calabresi, sono stato invece un fervido lettore del Lotta continua diretto da Deaglio dal 1977 fino al 1982 pur con qualche interruzione. Ricordo che quando misero il punto finale alla loro avventura andai da Deaglio e gli feci una saporosa intervista per L’Europeo, di cui mi sono ricordato molti anni dopo quando per avere io scritto di non avere dubbi che fosse stato un commando di Lotta continua ad attuare l’omicidio, Deaglio e molti altri ex di Lotta continua mi riempirono di insulti.
Non ho comprato invece il libello Curcio/Rostagno per il semplice fatto che lo avevo avuto fin da subito. Nel mio ricordo, deve essere stato il 1968 o giù di lì quando incontrai Curcio e un suo commilitone (forse Rostagno) alla libreria La Cultura di Catania dove loro erano giunti in una sorta di tour militante. Mi conoscevano per essere io allora il direttore di Giovane critica, ci salutammo calorosamente. Non ricordo se il loro libello me lo diedero in quell’occasione o invece me lo spedirono poco dopo. Lo lessi attentamente, sottolineando una riga sì e una riga no. No, non mi pare capissi che quelle righe stavano al debutto dell’inferno della nostra generazione. Ancora nel dicembre 1968 o mesi attigui era difficile immaginare che quell’inferno fosse alle porte.