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Da Depero a Bragaglia, i libri futuristi furono il fior fiore dell'avanguardia
Nulla da invidiare alle mirabilie tedesche e russe del tempo. Testi esplosivi, lettere acuminate che colpiscono in faccia il lettore: tutto raccolto in La parola trasversale. Libri e avanguardie 1900-1950, di Maurizio Scudiero, uno che conosce a menadito anche quanto zucchero Depero metteva nel caffè
Nella storia dei libri c’è un prima e un dopo gli anni immediatamente attigui alla Prima guerra mondiale. Dappertutto in Europa, dall’Urss dove ai bolscevichi era riuscito il gran colpo dell’ottobre 1917 alla Germania annichilita dalle pesantissime sanzioni che le hanno appioppato i vincitori, succede che l’alfabeto della grafia editoriale venga ora stravolto da gruppi di intellettuali e scrittori/poeti che è come se chiedessero rabbiosamente alla carta stampata nuove e più esasperate valenze comunicative. Scelgono caratteri tipografici più acuminati, sfrantumano quell’impaginazione simmetrica che nei libri durava da quando il tedesco Johannes Gutenberg aveva inventato l’arte della stampa, hanno bisogno delle immagini e in particolare dell’immagine fotografica per decuplicare l’esplosività dei testi. Più ancora, e siccome i testi sono fatti di parole e le parole sono fatte di lettere tipografiche, si impadroniscono delle lettere una a una e le stropicciano per ogni dove, le alternano ora minuscole ora maiuscole, le fanno ululare da come le schiaffano in faccia al lettore. Uomini il cui agire creativo è contrassegnato da denominazioni che finiscono in “ismo” si assembrano nelle redazioni di case editrici e riviste furibonde come mai era stato prima nella storia culturale. Il futurismo italiano, il costruttivismo russo, il dadaismo francese (epperò capeggiato da un rumeno, Tristan Tzara), tutti loro hanno al polso un orologio che segna la stessa ora morale e sentimentale, l’ora dell’innovazione totale, dell’andar contro la tradizione, del buttare a mare gli autori e i modi espressivi cari ai secoli precedenti.
Se è vero che il Novecento è stato una sorta di secondo Rinascimento nella storia della civiltà umana, non v’ha dubbio che i suoi primi trent’anni ne sono stati il momento più nuovo e sconvolgente. Quegli anni – libro dopo libro, rivista dopo rivista, poster dopo poster – li ha perlustrati adesso con una sua onnipotente lente di ingrandimento Maurizio Scudiero (nato a Rovereto nel 1954), lo storico dell’arte che tutta la sua vita ha vissuto di pane e avanguardie, a cominciare dal futurismo di cui nel tempo ha organizzato qualcosa come cento mostre. E tutto sommato questo suo recentissimo La parola trasversale. Libri e avanguardie 1900-1950 (Luni editrice, Milano, 2021) somiglia più a una mostra che a un libro, da quanto ci troverete libri e riviste talmente rari che mai vi ci imbattereste dal vivo, da quanto vi si manifestano prepotenti titoli e copertine partoriti da quelle avanguardie che in un giro incalzante di anni eruppero nella Milano di Filippo Tommaso Marinetti come nella San Pietroburgo di Vladimir Majakovskij, nella Barcellona di Carles Sindreu i Pons come nella Parigi di André Breton, nella Berlino dove la Bauhaus fa da incubatrice dell’intera storia del design moderno come nella Praga dell’artista visuale Karel Teige, nella Zurigo dove viene pubblicato il libro del 1925 che meglio ritrae quegli anni (il Die Kunstismen di El Lissitzky e Hans Arp, abbagliante la sua copertina) come nella Rovereto della cui Casa d’Arte è sovrano Fortunato Depero, uno di cui Scudiero conosce a menadito anche quanti cucchiaini di zucchero metteva nel caffè al mattino. Tale è l’osmosi tra Scudiero e la materia da lui raccontata che il carattere tipografico utilizzato nel suo libro è il Futura, creato nel 1927 dal grafico tedesco Paul Renner, uno che aveva studiato alla Bauhaus. Una ventina d’anni fa, la volta che un gallerista di Rovereto aveva scovato una manciata di disegni inediti del Depero protofuturista per poi metterli in vendita nella sua galleria, quell’esposizione Maurizio e io la inaugurammo avvolti in due dei celeberrimi gilet futuristi di Depero.
Non so se a un odierno studente universitario possa accadere quel che accadde a me un millennio fa: di avere dato tre esami di letteratura italiana e di non avere mai sentito pronunciare il termine “futurismo”. C’è una data che spacca in due la storia della cultura italiana: la magnifica mostra veneziana del 1985 che per la prima volta diede risalto ufficiale a un’avanguardia artistica tra le più risonanti nell’Europa del tempo. Scudiero non smette di elencarli i più straordinari di tutti quei libri straordinari, Fotodinamismo futurista di Anton Giulio Bragaglia del 1913, Ponti sull’oceano di Luciano Folgore del 1914, BÏF§ZF+18 di Ardengo Soffici del 1915, Les mots en liberté futuristes di Marinetti del 1919, Depero futurista 1913-1927, il libro imbullonato di Depero del 1927. Tutti libri che stanno a pari, eccome se ci stanno, con il fior fiore della letteratura d’avanguardia del tempo. Con una differenza rispetto alle mirabilie e tedesche e russe loro coeve. Che nella Germania dei secondi anni Trenta quella letteratura entrò a far parte dell’“arte degenerata” che Adolf Hitler spregiava da mane a sera e lo stesso accadde, mutato quel che è da mutare, nell’Urss di Stalin. Laddove in Italia, e contrariamente a quel che sostengono alcuni semianalfabeti corrivi nel reputare che durante il ventennio fascista non ci fu “cultura” in Italia, i futuristi furono attivi e vitali sino all’ultimo. Purtroppo uno dei libri visivamente più belli dell’ultimo Depero, A passo romano. Lirismo fascista e guerriero programmatico e costruttivo edito nel 1943 dal Fascio di Trento, è un libro che trasuda un fascismo ributtante. Il segno di quanto complessa fosse in quei personaggi l’interrelazione tra le loro convinzioni politiche e le loro qualità artistiche. Se è per questo il Marinetti che negli anni Dieci era andato in Urss a inebriare con le sue parole i futuristi russi che lo veneravano, in Urss ci andò sessantaseienne nel 1942 da soldato invasore e seppure da soldato che amava il popolo russo. Ne tornò fiaccato nel corpo e nello spirito, seppure convinto che in Urss ci sarebbe tornato a vincere la guerra. Nessun genio è perfetto.