uffa!
Sei un ebreo o un "uomo del Danubio"? L'odio antisemita nei diari di Mihail Sebastian
C'è un episodio che ha dell'incredibile nella vita dello scrittore ebreo rumeno, che chiese la prefazione per un libro a Nae Ionescu. Il suo maestro, diventato antisemita, scrisse che l'assimilazione degli ebrei era un'illusione. E quell'indecente prefazione Sebastian accettò, tale e quale, di metterla in testa al suo romanzo
Nelle numerose pagine dedicate in questa settimana al Giorno della memoria, raramente o forse mai ho letto il nome della Romania, che pure dopo la Polonia era il paese più esteso e più fittamente popolato dell’Europa orientale. In quella Romania anni Trenta, dove gli ebrei erano la bellezza di 750 mila su una popolazione complessiva di 18 milioni di abitanti, le fiamme dell’antisemitismo covarono più alte che in qualsiasi altro paese europeo. Gli studenti ebrei venivano aggrediti per strada, in venti si scagliavano contro uno a colpirlo senza mercede. In ciascun momento della giornata la mano tesa a un ebreo poteva trasformarsi in un cazzotto.
Nato nel 1907 a Braila, Mihail Sebastian era un raffinato scrittore a metà ebreo. Il suo vero nome era Iosif Mendel Hechter, un nome che lui aveva occultato perché a solo pronunziarlo, nella Romania degli anni Venti, gli sembrava di star “denunciando” l’essere ebreo. Di professione faceva l’avvocato. Proveniente da una famiglia di borghesia assimilata né conosceva l’yiddish né era credente. Gli piaceva vivere, incontrare ragazze, leggere dei bei libri, andare a teatro. Quanto agli studenti ebrei suoi coetanei che abbandonavano gli studi e se ne andavano a vangare con il piccone una qualche infelice terra palestinese, si chiedeva se il loro fosse un atto di eroismo o piuttosto di disperazione. Nel suo struggente diario pubblicato postumo (“Journal 1935-1944. The Fascist Years”, 1998) racconta che per le strade di Bucarest si imbatteva continuamente in baruffe le più violente tra ebrei e antisemiti e magari partivano colpi d’arma da fuoco, scene degne di “animali selvaggi”. E con tutto questo, alla morte per crisi cardiaca (il 15 marzo 1940) del suo ex professore Nae Ionescu, quello che era divenuto l’ispiratore del movimento rumeno antisemita per eccellenza, le Guardie di Ferro capitanate da Corneliu Zelea Codreanu, lui scoppiò in singhiozzi disperati. “E’ indubbiamente la più interessante e la più complessa persona che io abbia mai conosciuto”, aveva scritto nel suo diario.
E tuttavia l’episodio che ha dell’incredibile quanto al rapporto tra l’ebreo Sebastian e un Ionescu divenuto apertamente antisemita, è la vicenda della prefazione che gli viene richiesta da Sebastian e che lui appone nel 1934 alla prima edizione rumena del romanzo del suo ex allievo, “Da duemila anni”, titolo della meritoria traduzione italiana del 2018 per i tipi dell’editore romano Fazi. E’ il diario quasi giorno per giorno di uno studente ebreo (alter ego di Sebastian) che si muove nella Bucarest degli anni Venti-Trenta, uno che si sentiva profondamente tanto “un uomo del Danubio” quanto “un ebreo”, che a ogni angolo delle strade di Bucarest incontrava “un apostolo” che era potenzialmente “uno sterminatore di ebrei”. Di questo romanzo, Sebastian offre il testo a Ionescu chiedendogli una sua prefazione. Dove Ionescu scriverà che Sebastian si illudeva alla grande se sperava di essere “assimilato” alla maggioranza della popolazione rumena: “E’ l’illusione di tanti ebrei che credono sinceramente di essere rumeni […] Ricordati che sei ebreo. Sei tu Iosif Hecther un essere umano da Braila, sul Danubio? No, tu sei un ebreo da Braila sul Danubio”. E con tutto ciò quell’indecente prefazione Sebastian accettò, tale e quale, di metterla in testa al suo romanzo.
Quanto al diario di Sebastian, le sue pagine toccano vette cosmiche di angoscia nei giorni del settembre 1939 in cui si fa spaventevole l’ombra dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Sebastian se ne sta appeso ai comunicati radio, i primi bombardamenti di Varsavia, la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Inghilterra e Francia, l’esercito tedesco che avanza, lui che si aspetta di essere arruolato da un momento all’altro. Nel suo diario scrive che le mattinate sono “sopportabili”, che difficili sono le notti “avvelenate dal presentimento”. Ma il peggio arriva il giorno dopo, il 21 settembre. L’avvocato Sebastian è in un’aula del tribunale quando irrompe una donna a sussurrare di aver sentito alla radio che è stato appena ucciso Armand Calinescu, quello che dal 7 marzo 1939 era il primo ministro del governo rumeno. Calinescu s’era meritato l’appellativo di “uomo d’acciaio” per essere stato un avversario irremovibile delle Guardie di ferro, che lui giudicava nient’altro che “una banda di assassini”, ed era stato fra i politici rumeni che avevano promosso lo sterminio di Codreanu e di altri Legionari a centinaia nel novembre 1938. Poco meno di un anno dopo, nove Legionari avevano atteso per strada in pieno centro la sua Cadillac e l’avevano crivellata di colpi. Nel corpo di Calinescu trovarono 20 pallottole. Gli autori dell’agguato vennero uccisi immediatamente e i loro corpi furono lasciati un giorno e una notte sul selciato, esposti ai passanti nello stesso luogo in cui era avvenuto l’agguato. Senza alcun giudizio, in pochi giorni vennero uccisi altri 250 Legionari.
Sebastian c’era andato anche lui a vedere i corpi degli assassini di Calinescu, esterrefatto che la gente lì attorno ridesse e scherzasse come se stesse a una grande fiera. Gli riferiscono che molti dei Legionari detenuti in prigione erano stati assassinati come cani, ivi compresi gente che lui conosceva. Lo sapeva che molti di quei Legionari non avrebbero mosso un dito per proteggere la sua vita di ebreo, ma ciò nonostante si sentiva triste e affranto. A un certo punto gli dissero che lo stesso Ionescu era stato ucciso, salvo telefonargli più tardi che non era vero. Sebastian sentì il dovere di andare a far visita a Eliade, un altro che correva il pericolo di essere ritenuto responsabile delle gesta dei Legionari. Trovò la moglie Nina in preda all’isteria: “Vogliono uccidere Mircea!”. Lui gli voleva bene e glielo voleva testimoniare in quella particolare circostanza.