Parigi tra le due guerre, che fu culla europea degli intellettuali di “destra”
In nessun altro paese europeo la cultura che chiameremmo di destra è stata vitale e onnipresente come nella Francia della prima metà del Novecento e in quella Parigi è stato arroventato lo scontro culturale tra la “sinistra” e la “destra”
Per un cittadino europeo nato prima dell’ultimo quarto del Novecento credo sia stato impossibile scansare gli umori i libri i personaggi chiave della Parigi tra le due guerre. Bastava mettere la testa fuori dal nido di provincia comune a tanti di noi, e immancabilmente ci imbattevamo in qualcuno dei talenti che sostavano nei caffè del quartiere Latino o che frequentavano le redazioni di giornali e di case editrici prestigiose in Europa. Ce n’erano di che appagare tutti i gusti e tutti gli orientamenti ideali. A un tempo in cui la lettura di un libro ti cambiava la vita, prima o poi ti arrivava fra le mani un libro di André Breton oppure di Pierre Drieu La Rochelle, o magari di André Malraux se non del più furente di tutti, Louis-Ferdinand Céline. Ad Antonio Gnoli che lo stava intervistando per il supplemento di Repubblica, quel Sandro Luporini oggi novantunenne che ha scritto per Giorgio Gaber le canzoni da cui noi tutti siamo stati come ipnotizzati, lo ha confidato di recente. Che lui era uno notevolmente di sinistra, che lo sapeva benissimo quanto politicamente scorretto fosse Céline, fatto è che la lettura del Morte a credito (il secondo in ordine cronologico dei grandi romanzi di Céline) gli cambiò la vita. E mi immagino faccia riferimento all’edizione Garzanti del 1964, quella tradotta dal poeta Giorgio Caproni al tempo in cui abitava a poche centinaia di metri dalla mia attuale casa romana, una traduzione da cui erano stati espunti alcuni passaggi particolarmente roventi. Esattamente l’edizione su cui poco più che ventenne mi buttai a pesce non appena arrivò nella libreria di Catania dove avevo il conto che assorbiva per intero la paghetta mensile che mi versava papà. Com’era accaduto a Luporini, quel libro agì su di me al modo di un uragano. Mi scompigliò e mi riaggiustò come nuovo. E me lo inchiodò bene in testa il principio che quanto alla valutazione di un romanzo contano un fico secco quali siano le idee politiche del suo autore.
C’è poi che in quella Parigi è stato arroventato lo scontro culturale tra la “sinistra” e la “destra”, uno scontro cominciato nel 1894 al tempo dell’“Affaire Dreyfus” e che continuò sino al giugno 1940, quando le truppe tedesche sfilarono vittoriose lungo il Boulevard Saint-Michel. Più ancora, in nessun altro paese europeo la cultura che chiameremmo di destra è stata vitale e onnipresente come nella Francia della prima metà del Novecento. Erano di destra quelli che nel Novecento sono stati probabilmente i due più grandi editorialisti da battaglia delle idee, Charles Maurras e Léon Daudet. Ho scritto una volta che la prosa acuminatissima del Luigi Pintor accesamente “comunista” degli anni Sessanta e Settanta aveva un rapporto di parentela con la loro. Temo che Luigi se ne sarebbe offeso ove avesse letto quel mio giudizio, ma io volevo fargli un complimento.
Difficile che altrove attecchissero a tal punto personaggi quali Robert Brasillach e suo cognato Maurice Bardèche (ai quali si deve il libro che per primo assegna al cinema il ruolo che oggi noi tutti gli riconosciamo), Lucien Rebatet, Henry de Montherlant o magari uno scrittore raffinato come Marcel Jouhandeau, il quale nel 1937 aveva pubblicato un osceno librino dal titolo Le Péril Juif di cui ebbe però il buon gusto di chiedere all’editore che venisse ritirato dalla vendita quando i nazi presero a scorrazzare da padroni a Parigi. Terrificante è l’antisemitismo di cui gronda il libro di Rebatet, Les Décombres, la cui smagliante vena saggistica ne fece il libro più venduto durante l’occupazione nazi, a comprare il quale i parigini si mettevano in fila innanzi alla libreria che stava di fronte alla Sorbonne. Altrettanto terrificante è l’antisemitismo e il filonazismo di cui gronda l’itinerario intellettuale di Brasillach, lo scrittore francese condannato a morte per “collaborazionismo” il 19 gennaio 1945 dopo un processo durato poco più di quattro ore e fucilato alla mattina del 6 febbraio.
Quando nei primissimi anni Ottanta andai a cercare Bardèche a Parigi nella casa a poche decine di metri dall’École Normale dove già nell’Anteguerra avevano vissuto lui, sua moglie e suo cognato Brasillach, sapevo che abitava al terzo piano. Solo che al terzo piano di appartamenti ce n’erano tre e senza alcuna ulteriore indicazione. In quel preciso momento da una delle tre porte uscirono un paio di ragazzi che ce l’avevano scritta in volto la loro identità intellettuale. Chiesi loro se sapessero indicarmi l’appartamento di Bardèche. “Il n’est pas là”, risposero diffidenti. Ai loro occhi pur un mezzo secolo dopo la guerra civile europea era ancora in auge, e se qualcuno si presentava a chiedere dove abitasse Bardèche vuol dire che aveva cattive intenzioni. “Je suis un journaliste italien. J’ai un rendez–vous avec lui”, replicai. Ovviamente l’appartamento di Bardèche era quello da cui erano appena usciti. L’appartamento era ancora tale e quale al tempo in cui Brasillach ci aveva vissuto. Sua sorella mi indicò una ribaltina su cui lui aveva battuto a macchina i suoi libri, solo che l’avevano spostata da un angolo all’altro del soggiorno. Durante il nostro colloquio Bardèche sostenne che lui e suo cognato non avevano saputo nulla della persecuzione sistematica degli ebrei al tempo della guerra, il che mi pare dubbio se si pensa che nella sola Parigi i nazi rastrellarono circa undicimila ebrei di origine straniera per poi mandarli ai campi di annientamento.
E’ appena uscito in Italia il libro di Claudio Siniscalchi (Senza romanticismo, Bietti, 2022), uno studioso agguerritissimo su tutto ciò che attiene a Brasillach. Racconta come all’indomani della sentenza circolasse a Parigi un appello a chiedere la grazia per lo scrittore condannato a morte. Lo firmarono in tanti, Albert Camus e Jean Cocteau fra gli altri. Simone de Beauvoir non volle firmare.