Uffa!
Le tante e tragiche vicende “anni Settanta”
Miguel Gotor in "Generazione settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982" racconta gli eventi che segnarono l'Italia in quel periodo, tra occupazioni universitarie e la strage di Piazza Fontana
In questo suo gran bel libro, “Generazione settanta” (Einaudi, 2022) che come sottotitolo ha “Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982”, Miguel Gotor racconta che nel 1968 furono ben ventisette gli atenei italiani occupati dagli studenti. Gotor scrive esattissimamente così: “Le occupazioni, all’insegna della parola d’ordine ‘Potere studentesco’, si trasformarono per migliaia di ragazzi e ragazze, molti dei quali dormivano per la prima volta fuori di casa ribellandosi all’autorità dei genitori, in un’irripetibile esperienza di socializzazione e di educazione sentimentale”.
Nel gennaio 1968 uno degli atenei occupati era quello della città siciliana dove sono nato, Catania. In quel momento io insegnavo Italiano in un liceo francese, e dunque sogguardavo con invidia quanto stavano facendo i miei compagni di generazione. L’occupazione dell’università di Catania aveva un colorito particolare. Il drappello di ragazzi e ragazze di sinistra che l’avevano occupata era assai scarno quantitativamente. Tutt’attorno alle mura dell’università la polizia stava a proteggerli dall’eventuale contrattacco degli studenti fascisti che a Catania erano assai più numerosi, quei poderosi giocatori di rugby addestrati da Benito Paolone che erano l’incubo di noi studenti di sinistra più o meno gracilini. Quando decisero di togliere il disturbo i miei “compagni” lasciarono un cartello con su scritto “Torniamo subito”, una dizione che Vitaliano Brancati avrebbe approvato senz’altro. Noi tutti siamo adesso infinitamente lontani da quella temperie. Una ventina d’anni fa, quando mi sono ritrovato di fronte Paolone in un teatro catanese, l’ho abbracciato come si fa tra vecchi attori che avevano recitato in una pièce arrugginita dal tempo e che si rincontrano dopo tanti anni.
Beato lui, Gotor ha trent’anni meno di me. Mi perdonerà ma è impossibile per me trattare questo suo libro per come merita un libro talmente denso e ricco. Il fatto è che gli anni da lui studiati sono stati il mio vivere, la mia giovinezza in una remota provincia meridionale da cui volevo fuggire “costi quel che costi”, gli anni della mia formazione e del successivo disincanto che ha fatto di me quel che sono oggi. Le parole in auge in quel prolungatissimo “decennio” mi sono state talvolta scaraventate in volto, a offendermi. Le riviste che fecero da incubazione della mia generazione una l’ho fondata e poi diretta da solo per dieci anni, le altre andavo girando presso i miei coetanei affinché si abbonassero. Ho da qualche parte le ricevute dei soldi inviati all’amministrazione dei Quaderni rossi o a Piergiorgio Belloccchio, era lui che teneva i conti dei Quaderni piacentini. Quando mi è arrivata la notizia della sua morte, subito mi è venuta alla mente l’immagine di me e Natalia che scendiamo alla stazione di Piacenza alla cui uscita stavano ad aspettarci lui e Grazia Cherchi. Quanto a quelli che hanno sparato a uccidere nel nome del comunismo e di una società migliore, con uno di loro a Roma avevo giocato a ping pong. Uno che era accusato di essere al vertice del terrorismo rosso ma non lo era affatto, Franco Piperno, l’ho ospitato latitante a casa mia per un mese e mezzo. Nel libro che lui ha scritto vent’anni dopo, il mio nome non è mai menzionato. C’ero innanzi alla Scala di Milano, la sera del 7 dicembre 1968, quando una miriade di energumeni mimò una sorta di aggressione a quanti erano andati a godersi uno spettacolo com’era nel loro pieno diritto.
Sì, un decennio che è come se fosse durato poco meno di una ventina d’anni. Gli studenti universitari italiani erano 140 mila nel 1951 e diventano 340 mila nel biennio 1966-1967, non perché ci fossero così tanti sbocchi professionali ma perché sarebbe aumentata la tribù dei disoccupati eccellenti. A partire dal 1969 alcuni neofascisti patavini quali Franco Freda e Giovanni Ventura cominciano ad andarci di mano pesante nell’apprestare ordigni esplosivi che per fortuna qualche volta non esplodono e qualche volta sì, ad esempio il 12 dicembre 1969 in una banca di Milano a strappare via sedici vite. Giuseppe Pinelli, un anarchico che non c’entrava nulla con una tale criminalità, viene trattenuto per tre giorni alla questura di Milano e interrogato tre volte di seguito (ma solo una volta dal commissario Luigi Calabresi) finché non precipita giù dal quarto piano della questura, e accanto al cadavere rimane la cicca della sigaretta che stava fumando prima di cadere. Un’indagine della magistratura durata quattro anni non troverà alcun segno di violenza sul suo corpo. Nel giugno 1971 esce sull’Espresso un documento firmato da oltre 700 vip del giornalismo e dell’arte che indica immancabilmente in Calabresi il responsabile della morte di Pinelli. La mattina del 17 maggio 1972 un fervido militante toscano di Lotta continua, il venticinquenne Ovidio Bompressi, scende da un’auto guidata da un altro militante torinese di Lc, il ventiseienne Leonardo Marino, si avvicina al commissario Calabresi che stava per avviare l’auto che lo avrebbe portato al suo lavoro in questura e gli spara due colpi alla testa e alla schiena.
E’ solo una delle tantissime storie italiane “anni Settanta” che Gotor racconta in un volume di oltre 400 pagine. Quando Gian Arturo Ferrari, l’allora capintesta della Mondadori, venti e passa anni fa mi chiese di scrivere un libro sugli anni Settanta proposi per quel libro un titolo che non venne approvato e in cui c’era la parola “minigonna”. Lo feci cominciare dal racconto del tragitto a piedi che Adriano Sofri faceva ogni giorno per andare dalla sua casa attigua a Piazza Navona alla redazione di Lotta continua attigua a Piazza San Cosimato, dove alla mattina del 17 maggio 1972 concertarono un editoriale in cui era scritto che la classe operaia ne sarebbe stata ben contenta di quell’assassinio.