Il "treno della morte" di Iasi (Wikipedia) 

uffa!

Le foto del pogrom di Iasi in Romania, le più atroci del '900

Giampiero Mughini

Il massacro nel paese alleato dei nazisti: oltre 13.000 ebrei uccisi in una città dove la popolazione ebraica era un terzo del totale. Queste testimonianze fotografiche sono una rarità: i rastrellamenti a Roma e Parigi non furono immortalati quasi per niente

Quelle raccolte in un libro pubblicato nel 2014 da un Centro studi dedicato all’Olocausto in Romania (The Iasi Pogrom. June-July 1941) sono foto tra le più atroci dell’intero Novecento, un secolo che pure in fatto di atrocità ne ha conosciute di inaudite. Solo che nella buona parte dei casi non c’era lì nei paraggi un occhio fotografico che quelle atrocità le catturasse a testimoniarle per sempre. E invece quando il “treno della morte” nel quale erano stati assiepati oltre 2.500 ebrei rumeni e che era partito nella notte del 30 giugno 1941 dalla stazione di Iasi, la seconda città in ordine di importanza della Romania, arrivò alla stazione di Târgu Frumos  dopo diciassette ore di viaggio – ché tante ce n’erano volute a percorrere 40 chilometri – , e le porte dei vagoni vennero spalancate, e i cadaveri a mucchi di gente morta di sete e disperazione vennero trascinati al suolo, lì di fronte c’era un qualche soldato tedesco munito di macchina fotografica che cominciò a scattare. Loro sì, i soldati tedeschi che si trovavano nella Romania loro alleata, potevano farlo per poi magari quelle foto spedirle alle loro famiglie in Germania, famiglie cui in molti casi non spiaceva di vedere le immagini di ebrei bell’e morti. E quanto a ebrei uccisi, nel pogrom di Iasi – una città dove gli ebrei erano circa 35 mila, un terzo della popolazione totale – alla fin fine furono oltre 13 mila. 

Non so in quali altri casi il furore antisemita del Novecento sia stato documentato così da vicino. Stavo per dire così a perfezione, da quanto quelle foto sono brucianti, essenziali nel loro orrore, non nascondono nulla di quei cadaveri ancora contratti nello spasimo della morte. Tanto per fare dei raffronti, esistono pochissime foto del rastrellamento degli ebrei romani alla mattina del 16 ottobre 1943, né poteva essere diversamente trattandosi di un evento accaduto per le straduzze del più antico ghetto del mondo quando la buona parte della popolazione romana ancora dormiva. Esistono altresì pochissime foto di una delle pagine più sciagurate dell’intera storia francese, la “rafle” condotta dalla polizia francese il 16 luglio 1942 a danno degli ebrei di cittadinanza straniera che vivevano a Parigi, un rastrellamento durante il quale vennero catturati 13.152 ebrei di cui 4.155 bambini e ragazzi fino ai 16 anni. Per un tempo i gruppi familiari furono raccolti nel Velodromo d’Inverno sito nel Quindicesimo Arrondissement di Parigi. Talmente poche le foto di quella gigantesca “rafle”, che i libri francesi nel secondo Dopoguerra pubblicarono a lungo una foto delle scalinate del Velodromo colme di gente fatta passare quali gli ebrei del luglio 1942, e invece erano dei “collaborazionisti” francesi rastrellati a loro volta nel settembre 1944, all’arrivo delle truppe alleate a Parigi.

Il pogrom di Iasi era scattato tra il 29 e il 30 giugno del 1941, pochi giorni dopo che i nazi e i loro alleati rumeni si erano avventati sull’Urss. Uno schieramento che alla sua ala destra aveva come asse portante le divisioni capeggiate dall’allora capo del governo rumeno, il generale Ion Antonescu. Iasi e dintorni stavano più o meno alla linea di contatto tra i due opposti eserciti, un eventuale contrattacco russo l’avrebbe scelta come il bersaglio più immediato. Ebbene nei primissimi giorni di guerra circola la notizia (montata ad arte) che gli ebrei di Iasi parteggiassero per i russi, ne accogliessero i paracadutisti, fungessero addirittura da cecchini contro soldati tedeschi e rumeni. Corre voce che sia stata una studentessa ebrea a indicare quali obiettivi colpire ai piloti sovietici che il 22 e il 26 giugno avevano picchiato duro su Iasi. Dicerie e sospetti che combaciavano a perfezione con l’immaginario dello straripante antisemitismo rumeno di cui negli anni Trenta le Guardie di Ferro capitanate da Elias Codreanu erano state l’espressione la più criminale. Il generale Antonescu li aveva combattuti quando erano stati suoi rivali politici, ma in fatto di antisemitismo anche lui non scherzava e tanto più adesso che era divenuto (obtorto collo) un alleato militare dei nazi. A dare il la all’aggressione antisemita a Iasi è Mihai Antonescu, il ministro degli Esteri che al timone del governo rumeno ha sostituito il suo omonimo impegnato nell’azione militare. Alla mattina del 1° giugno 1946, saranno in piedi l’uno accanto all’altro di fronte al plotone di esecuzione.

Ci vuole un istante perché la marmaglia antisemita irrompa strada per strada e casa per casa contro gli ebrei che a Iasi erano tanti. Nel libro da cui sono partito ci sono le foto di intere famiglie sterminate innanzi al portone di casa loro, il padre la madre il bambino stesi l’uno accanto all’altro. Sotto ognuna di quelle foto atroci ci sono i nomi e i cognomi delle vittime, il proprietario di un bar, un rabbino, un ingegnere. Un ebreo che aveva combattuto valorosamente nell’esercito rumeno si trova di fronte un ufficiale di polizia che conosce e al quale raccomanda la sua identità. Quello gli risponde così: “Ebreaccio, non ti conosco”. 

In quei pochi giorni tra fine giugno e primi di luglio gli ebrei assassinati a Iasi sono vicini a ottomila, quelli le cui case vengono saccheggiate ancora di più. Qualcosa di vicino a 5.000 ebrei vengono intanto caricati su due treni della morte in ciascun vagone dei quali ne sono stipati da 60 a 200. Mentre i due treni deambulano lentissimamente per la Romania, loro chiedono disperatamente un sorso d’acqua. Non lo avranno. Quando finalmente i due treni si arrestano e vengono aperte le porte dei vagoni, i cadaveri sono affastellati a mucchi. Tra l’uno e l’altro treno oltre un paio di migliaia. Alcuni senza scarpe, perché gliele hanno rubate. Altri hanno un braccio che s’è teso nell’ultimo sforzo di parare la morte. I loro compagni sopravvissuti ce la fanno appena a trascinarli via.