tutti contro tutti
Il valore del silenzio in un mondo assordato dai social, corani del sapere odierno
I nuovi media sono una bestemmia contro il pensarci su prima di aprire bocca a vanvera. C'è che i giornali di carta vagolano oggi nella mestizia, con buona pace degli scioperanti di Repubblica perché il direttore ha promesso di rafforzare la versione digitale del quotidiano
Se ho letto bene, i giornalisti di Repubblica sono entrati in sciopero un paio di giorni fa anche perché il loro direttore (il mio vecchio amico Maurizio Molinari che aveva debuttato nell’Indipendente diretto da Pialuisa Bianco) ha promesso di rafforzare la versione “digitale” del quotidiano rispetto alla versione cartacea. C’è che i giornali di carta vagolano oggi nella mestizia. Quando alla mattina vado all’edicola vicino casa mia dove compro cinque quotidiani (ne vorrei comprare otto-dieci) mai una volta ho visto qualcuno sotto i trenta-quarant’anni che li comprasse. Mai.
Non dico i comizi, non dico i giornali di partito d’antan, non dico gli editoriali di opinion maker particolarmente influenti quali sono stati Indro Montanelli o Eugenio Scalfari. Tutto al contrario la recente campagna elettorale italiana s’è incentrata sul web. E’ lì che i vari leader di partito hanno giostrato le loro carte, è lì che si affollano a centinaia di migliaia i like, le spartizioni e le contrapposizioni delle opinioni, in definitiva le decisioni di ognuno di noi cittadini della repubblica. E del resto siamo in un’epoca in cui va in prima pagina la compera da parte di Elon Musk del social media Twitter, non ci va certo l’eventuale vendita della proprietà dell’Espresso, un settimanale che oggi mette malinconia a trovarselo la domenica in mezzo alle pagine del quotidiano cui è annesso d’obbligo. Quanto al suo storico rivale, il settimanale Panorama dove Claudio Rinaldi mi aveva assunto al tempo in cui vendeva 600 mila copie a settimana (alla Mondadori lo chiamavano “la gallina delle uova d’oro”), è un miracolo che oggi Maurizio Belpietro riesca a venderne qualcosa di più di 20 mila copie a settimana. Leggo su Dagospia che un pur formidabile showman quale Fiorello raggiunge un numero maggiore di persone quando va su Instagram che non quando si esibisce in un canale Rai.
Di un tale putiferio che segna una svolta epocale nella storia della comunicazione di massa, ne sta parlando uno che alla sua veneranda età s’è ritrovato d’un tratto a essere un analfabeta. Peggio ancora: uno che addentro a questa comunicazione non c’è, proprio non c’è. Non dico come attore, questo sarebbe niente, ma neppure come utente. Sono un analfabeta di ritorno, punto e basta. Non solo non ho un account social, ma addirittura non so bene che cosa siano gli enti sovrani della odierna comunicazione di massa, i vari Facebook, Tik Tok e compagnia cliccante. Lì dove avvengono “le cose”, dove si misurano e si arroventano gli avversi pareri, dove nasce la narrazione corrente la più diffusa. No, io non li frequento quei Corani del sapere odierno. E’ un mio limite, una mia miseria, una mia colpa, lo so. Ho solo Whatsapp, che uso unicamente per mandare a Fabrizio Roncone o ad Aldo Cazzullo o a Francesco Merlo o a Mattia Feltri apprezzamenti per un qualche loro articolo. Dal lato dell’entrata sono invece sommerso da un profluvio di messaggi Whatsapp da parte di gente che conosco ma anche da gente che non conosco affatto.
Ne ricevo molti da una giovane donna bionda che non ho mai visto in vita mia e che mi manda sue foto in cui ha un’aria concentratissima e le labbra come protese non so verso che cosa. Da un avvocato milanese che mi manda una sua foto di quando aveva sette anni. Da una mia cara amica che mi manda foto della città in cui vive, foto qualunque che non aggiungono né tolgono nulla. Da uomini e donne che stanno immortalando il momento in cui si stanno facendo un selfie, un istante decisivo di cui hanno la bontà di farmi partecipe perché io possa poi raccontarlo ai miei eventuali nipoti. Da qualcuno che ha appena scritto un libro e che mi annuncia giorno dopo giorno quale giornale ne ha parlato. La grandissima parte di questi comunicatori non è che mi mandi una volta un messaggio dove mi chiedano se sono ancora vivo o mi facciano gli auguri per un qualche mio libro appena andato in libreria. Mai. Evidentemente io faccio parte di una loro mailing list, gente alla quale tutti assieme e con un solo clic fanno sapere della loro esistenza: si mettono in mostra, annunciano al mondo che loro ci sono eccome. E la prova provata ne è che si stanno scattando un selfie. Faccio dunque parte di una lista di potenziali clienti cui vendere qualcosa della loro identità, del loro stare al mondo. Tanto per fare un raffronto, quando esce un mio libro io ne dedico 7-8 copie agli amici fidati e questo è tutto. Per il resto me ne sto zitto. Che un libro arrivi in libreria, ahimè non è più una notizia.
Ecco, lo strepitoso valore del silenzio in una società com’è divenuta la nostra, una società assordata dal vociferare di tutti contro tutti. Laddove i social sono una bestemmia pronunciata costantemente contro il silenzio, contro il pensarci su prima di aprire bocca a vanvera, contro il rinunziare ad accoltellare un tuo interlocutore perché tanto non ne vale la pena, contro quel ragionare complesso e sfumato che ci differenzia dalle bestie. Personalmente questo silenzio io lo interrompo non più di un paio di volte alla settimana in ragione della mia collaborazione a Dagospia e al Foglio che esce il martedì. In quest’ultimo caso ci penso e ci ripenso prima di dar vita a queste stramaledette 5.800 battute cui tengo così tanto e che talvolta rimugino per 3-4 giorni, il tempo in cui un abituale utente di Twitter si è esibito almeno un centinaio di volte a dire la sua su come va questo povero nostro mondo. Tre o quattro giorni durante i quali magari mi viene in mente di correggere o arredare diversamente una frase già scritta al computer e perciò accorro a correggerla per poi tornarci sopra nuovamente e poi ancora. C’è qualcosa di sacrale nell’aggiungere o nel togliere un aggettivo da un tuo testo destinato a un giornale di carta, altro che battere il numero di tasti consentito da un tweet.