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Elogio degli “editoriali”, coloro che hanno fatto prosperare l'editoria italiana
Sono raccontati nella “Storia confidenziale dell'editoria italiana” di Gian Arturo Ferrari, al tempo stesso un’autobiografia, un romanzo, una sequenza di colpi di scena: tali furono i destini di alcuni libri su cui nessuno avrebbe giurato e che invece sarebbero diventati dei bestseller
Gian Arturo Ferrari, quello che da capintesta della Mondadori è stato uno dei sovrani della recente editoria italiana, ha appena pubblicato da Marsilio Storia confidenziale dell’editoria italiana. Lui più giovane di me di tre anni, nel leggere (voluttuosamente) il suo libro vedo che le via crucis di ciascuno di noi due percorrono le stesse stazioni. Ferrari era uno studente ginnasiale, io uno studente liceale, quando scoprimmo entrambi il fior fiore della letteratura mondiale attraverso la collana della Bur ideata nel 1949 dal grande Luigi Rusca, quei librini che a seconda del numero delle pagine costavano da sessanta a centottanta lire a un tempo in cui il biglietto del tram costava 35 lire. E dunque bastava non prendere un paio di bus per leggere in un’eccellente traduzione un romanzo di Honoré de Balzac o i racconti di Anton Cechov. A quattordici anni Ferrari si ritrovò in casa una copia del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (edito nel 1958) regalata a sua madre, laddove io ne avevo venti quando una copia di quel libro la regalarono a mia madre e subito la divorai. Così come avevamo più o meno la stessa età rispettiva quando incontrammo per la prima volta un agente rateale della Einaudi, uno degli uomini al quale debbo quel che sono oggi, l’avere bisogno della carta dei libri come dell’aria che respiro. Ed eravamo allo stesso punto delle nostre rispettive traiettorie culturali nel 1972 quando venne pubblicato in Italia La donna della domenica di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, un romanzo apparentemente “leggero” e “d’evasione” che ha fatto da pietra miliare dell’educazione letteraria sua e mia, da come Ferrari ne scrive magnificamente nel suo libro: “[…] l’evasione non è per definizione il ‘basso’, ma c’è anche lì un basso e un alto, c’è più sapienza, più stile, più letteratura nella Donna della domenica che in diversi vincitori del premio Strega”. Le nostre strade si sono poi incontrate nei secondi anni Novanta, quando Ferrari mi convocò al primo piano del palazzetto romano della Mondadori di via Sicilia a chiedermi di scrivere un libro sui tormentatissimi anni Settanta italiani, e ne venne fuori Il grande disordine del 1998. Libro di cui gli sono tuttora grato.
Quanto alla Storia confidenziale dell’editoria italiana, da cui ho preso le mosse, è al tempo stesso un’autobiografia, un romanzo, un rendiconto vivido e dettagliato di come agirono gli uomini che hanno segnato la storia dell’editoria italiana novecentesca, una sequenza di colpi di scena che tali furono i destini di alcuni libri su cui nessuno avrebbe giurato e che invece sarebbero diventati dei best-seller venduti a centinaia di migliaia di copie ciascuno. E’ il caso del romanzo firmato da un nobile siciliano di cui nessuno sapeva nulla di nulla, tal Tomasi di Lampedusa. La prima edizione del suo libro, fortemente voluto da Giorgio Bassani, era stata nel novembre 1958 di appena 3.000 copie. Dopo tre settimane ne venne tentata una seconda, dato che il romanzo si vendeva discretamente. Dopo di che alla Feltrinelli continuarono per anni a editarlo a forza di un’edizione a settimana, aiutati in questo dalla comparsa nel 1963 del film (mediocrissimo) con Burt Lancaster e Claudia Cardinale. Al tempo di un libro di oltre vent’anni fa che raccontava la fortuna editoriale del romanzo, le edizioni censite del Gattopardo erano la bellezza di 125. Nel mercato antiquario una copia della prima edizione starebbe oggi attorno ai 1.200 euro, che diventano 1.500 ove la copia sia completa della sua schedina editoriale.
Quelli che come lui hanno fatto vivere e prosperare le case editrici italiane dell’ultimo mezzo secolo, Ferrari li chiama “gli editoriali”. Quelli che governano il flusso dei “manoscritti” che entrano in casa editrice e dunque il flusso dei libri con tanto di copertina e di titolo che ne escono in direzione delle librerie. Gente che sarebbe stata destinata a insegnare in qualche “remota scuola media” e che invece ha saputo “tuffarsi nel calderone dove ribolle la cultura nel suo farsi”. Gente quasi tutta di sinistra, che di “democristiani” nell’editoria non ce n’è. Un tempo fra loro c’erano molti “francofili”, oggi non più dopo che è andata esaurita la saga di Jean-Paul Sartre e della Simone de Beauvoir appostati ai tavoli del caffè parigino Les Deux Magots. “Non sono affatto una comunità né vogliono esserlo (ci sono invidie, dispetti, sgambetti), anche se condividono opinioni e atteggiamenti di superficie. Una certa esibizione di sprezzatura professionale per i libri, da sagrestani con gli arredi sacri, libri di cui è bene parlare con oggettività e freddezza, trattati come se fossero cose, manufatti o attrezzi, badando bene di evitare gli sdilinquimenti”, scrive Ferrari dei suoi commilitoni.
Ho avuto una gran fortuna nel poter lavorare dirimpetto ad alcuni dei più valorosi di quella progenie. Con Edmondo Aroldi, l’indimenticabile capo della saggistica Rizzoli negli anni Novanta, il quale accolse con entusiasmo il mio progetto di dedicare un libro al più fascista dei giornalisti italiani degli anni Trenta, Telesio Interlandi. Con Andrea Cane, a lungo capo della saggistica Mondadori, il quale fu lui a invitarmi a scrivere un libro sulla Juventus, un’idea che a me non era mai passata per la testa da quanto giudicavo da tenere sottotraccia il mio smisurato amore per i colori bianconeri. Con Paolo Repetti, che alla Einaudi stile libero covò con affettuosa attenzione La collezione. Dapprima con Elisabetta Sgarbi e poi con Beatrice Masini alla Bompiani, la casa editrice che ha pubblicato buona parte dei miei ultimi libri. Con Ottavio Di Brizzi, che alla Marsilio non la finiva di scocciarmi col chiedermi un’introduzione generale al mio recente I rompicazzi del Novecento, ciò di cui non avevo nessuna voglia, e finché non mi sono reso conto che aveva perfettamente ragione lui.