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Uffa!

Povero è chi crede alla favola dell'arcangelo Lenin opposto al mostro Stalin

Giampiero Mughini

La verità è un'altra, e la si riscopre leggendo "Speranza contro speranza" di Nadezda Mandel’stam. Lei fu moglie e poi vedova del più grande poeta russo del Novecento, l’Osip Mandel’stam morto mentre lo deportavano. I poeti, i bolscevichi avevano cominciato a ucciderli da subito

Se c’è stato un comunismo buono alla maniera del capo bolscevico Vladimir Uljanov Lenin e solo dopo un comunismo cattivo alla maniera del suo successore, Josif Vissarianovic Stalin? E’ l’aberrante sciocchezza recitata a lungo durante quel Ventesimo secolo di cui siamo tutti figli. Appostato com’era al quinto piano di una mansarda parigina, lo scrittore rumeno Emil Cioran è stato per poco meno di mezzo secolo uno dei più implacabili cecchini intellettuali d’Europa. Ebbene, valga per tutte quello che il sessantunenne Cioran scrive il 25 dicembre 1972 al filosofo e editore viennese Wolfgang Kraus con cui ebbe una corrispondenza durata vent’anni: “Ha letto Hope Against Hope di Nadezda Mandel’stam? Un documento veramente straordinario e sconvolgente. Curiosamente, la maggior parte di coloro che l’hanno letto (ovviamente in Europa occidentale) ancora crede che Stalin fosse un mostro, mentre Lenin era un arcangelo. Se un tale libro fosse giustamente compreso, allora ci si liberebbe per sempre dalle illusioni”. 

Se nella storia del comunismo reale c’è stato dapprima un “arcangelo” le cui buone intenzioni vennero tradite da un figuro che prese il suo posto quale capo del comunismo nel mondo? Ma nemmeno per idea. Dal primissimo momento e per sua intima costituzione il comunismo reale è stato in Unione sovietica un tessuto dell’orrore che avvolse per intero gli uomini viventi, i loro contatti, i loro rapporti, i loro sguardi, i giudizi che l’uno dava dell’altro, le “esecuzioni capitali” che si succedevano a raffica e che ogni volta dovevano rendere la società migliore. Sì, a rendersene conto basta leggere questo Speranza contro speranza della Mandel’stam edito adesso nella superba veste grafica con cui il poco più che quarantenne Gianluca Seta contrassegna i libri della Settecolori, la casa editrice milanese cui presiede lo scrittore e saggista Stenio Solinas, uno che proviene dalla destra rautiana e che da oltre trent’anni è un mio amico e sodale. Non è questa la prima edizione italiana del libro della Mandel’stam, un testo che nel raccontarci ora per ora e giorno per giorno quel che è stata l’Urss dei “tremendi anni” staliniani è ancora più immane e sconvolgente di quanto lo fosse il cento volte più noto Una giornata di Ivan Denisovic di Alexander Solzgenitsin. 

Nata nel 1899 in Russia dov’è morta nel 1980, la Mandel’stam è stata per diciannove anni la moglie e per oltre quarant’anni la vedova del più grande poeta russo del Novecento, l’Osip Mandel’stam braccato dagli staliniani perché colpevole di avere scritto nell’autunno del 1933 e recitato innanzi agli amici sedici versi contro il despota. E finché non morì per collasso cardiaco nel 1938 mentre lo stavano portando in un lager sito a oltre cinquemila chilometri da Mosca. La Mandel’stam prese a scrivere le sue memorie a partire dal 1964. Ne apparve nel 1970 un primo volume in inglese con il titolo Hope Against Hope, il libro cui faceva riferimento Cioran nella lettera citata. In Italia ne uscì da Mondadori una prima traduzione nel 1971 a cura di Serena Vitale, più tardi una traduzione di Giorgio Kraiski (mio professore di lingua e letteratura russa all’università di Catania), di cui nel 2006 apparve una riedizione anastatica con la sigla editoriale Liberal. Un libro dal titolo L’epoca e i lupi nobilitato da un’introduzione di Vittorio Strada che subito avevo comprato ma poi letto soltanto a metà. Appena ho visto emergere l’edizione Settecolori, mi ci sono buttato a pesce per il rimorso di non avere letto tutto intero il volume edito a suo tempo da Liberal. Un secondo volume delle memorie di Nadezda, quello che nell’edizione inglese figura col titolo Hope abandoned, verrà pubblicato da Settecolori nel 2023.

I poeti, quelli che nei loro versi non specchiavano la realtà per come era configurata dalle direttive di partito e che invece se ne inventavano una loro di realtà, i bolscevichi avevano cominciato a ucciderli da subito. Nikolaj Gumilëv, il fondatore dell’acmeismo e marito di Anna Andreevna Achmatova, venne fucilato nel 1921 perché accusato di attività controrivoluzionarie. Da quando capirono tra i primissimi che cosa significasse l’èra staliniana, la Achmatova e i Mandel’stam marito e moglie rimasero tutta la vita in rapporti di affettuosissima solidarietà. La Achmatova non amava essere definita “poetessa”, le piaceva di più il termine “poeta”. Alcuni anni fa sono stato nell’appartamento di San Pietroburgo dove lei aveva vissuto a lungo e dove credo sia morta nel 1966. In quell’angusto appartamento non ricordo più se di due o tre stanze era come se la respirassi la disperazione di quanti erano stati eletti a bersaglio durante la “yezovschina”, gli anni dal 1936 al 1938 dominati dal capo del Nkvd Nikolaj Ezov (il “nano sanguinario”, era alto 1,52), e finché non lo fucilarono a sua volta nel febbraio 1940. In un corridoio dell’appartamento riponevano il letto dove dormiva il figlio della Achmatova quando arrivava a San Pietroburgo. Anche lui braccato a causa del nome Gumilëv che portava. Me la immaginavo quella casa frequentata dai Mandel’stam ma anche da Boris Pasternak, al quale avevano chiesto una volta di apporre la propria firma sotto un appello in cui si raccomandava di fucilare un po’ di gente, e lui ci pensò a lungo prima di decidere di non firmare. A schiacciare la resistenza degli intellettuali, disse una volta il fratello della Mandel’stam, non era stata tanto la paura e la corruzione quanto il fatto che molti di loro non volevano rinunciare all’osannare la parola “rivoluzione”, la parola dal suono magico che celava la realtà dei lager e delle fucilazioni a fin di bene. Lo schermo che proteggeva gli assassini da ogni sguardo e da ogni analisi. Scrive la Mandel’stam: “Tacevamo tutti nella speranza che non uccidessero noi ma il nostro vicino”.