uffa!
Con i libri che parlano di libri, ti scopri ignorante e vuoi leggere di più
Dalle "Passeggiate con i cani" di Gianfranco Calligarich, dedicato alla direttrice di Bompiani Beatrice Masini, a "Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994)", di Anna Ferrando
Mi succede a ogni libro che leggo, che a fine lettura mi sento più ignorante di quando non lo avevo ancora letto. E questo perché a leggerlo mi si sono apprestati innanzi dei libri che non avevo letto e tanti e belli. Mi è accaduto dopo l’aver letto il delizioso romanzo breve Passeggiate con i cani (Bompiani, 2023) di Gianfranco Calligarich, lo scrittore italiano nato ad Asmara nel 1947 di cui finora non sapevo nulla e di cui adesso vorrei leggere tutto o quasi. Il suo debutto letterario era avvenuto nel 1973 con un libro pubblicato da Garzanti, L’ultima estate in città, cui aveva fatto da madrina Natalia Ginzburg che ne aveva letto e apprezzato il dattiloscritto dopo che nessuno degli editori cui Calligarich s’era rivolto aveva detto di sì. Negli ultimi anni Calligarich è divenuto un autore prediletto dalla Bompiani di Beatrice Masini, alla quale Passeggiate con i cani è dedicato e dov’è il capitolo in cui lui si reca a casa della Ginzburg appena morta a darle l’ultimo saluto: “Tutto era morto e immobile nella stanza. E il volto di lei quello di tutti i morti, vale a dire il volto di chi ha pagato fino in fondo lo scotto di essere vivi”.
Ancora di più mi sento ignorante mentre sto leggendo questo accuratissimo Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994) di Anna Ferrando, e perché ignoravo tanti scorci iniziali della da me amatissima casa editrice milanese e perché il suo libro è talmente avvincente che ho come la colpa di non avere letto due suoi precedenti libri dedicati alla storia dell’editoria italiana e che mi immagino altrettanto ricchi e documentati dell’Adelphi, dove i riferimenti bibliografici si accaparrano la bellezza di cento pagine. Solo che non si può leggere tutto.
E’ singolare che da una parte la lettura dei libri di carta stia scomparendo dalle consuetudini del cittadino medio, dall’altra sempre più spesso si pubblichino libri dedicati al fare i libri, al collezionarli, allo studiarne le valenze più riposte. Dici Adelphi e dici una casa editrice che è nata nei Sessanta piccina e indipendente per poi imporsi via via come la più suggestionante casa editrice italiana, quella che impregna di una sua particolare aureola ciascun libro pubblicato. Persino scrittori per i quali trovare dei lettori era stato un cammino impervio, sto pensando al grande Tommaso Landolfi, appena pubblicati con il marchio Adelphi il pubblico lo hanno trovato eccome. E dire che fin dalla sua nascita l’Adelphi s’era manifestata in controtendenza rispetto al gusto dominante nell’intellettualità italiana, quella che per un paio di decenni non s’era persa nulla di un catalogo Einaudi talmente bramoso di esaltare ciascuna causa della sinistra italiana e non. Quel catalogo di cui Roberto Calasso scriverà – alla morte di Giulio Einaudi – che gli mancava “una vasta parte dell’essenziale”. Tanto per dire, alla Einaudi c’erano sì i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, i libri del socialista Rodolfo Morandi e quelli dell’azionista Norberto Bobbio, ma all’idea di fare una moderna edizione critica dei libri di Friedrich Nietzsche Giulio Einaudi disse un tormentato no, laddove l’Adelphi della leggendaria edizione curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari ne fece da subito un cavallo di battaglia. Pur essendo un adepto della religione einaudiana, a me ventenne si rizzarono i capelli in testa dall’eccitazione nell’udire i primi fragori editoriali dell’Adelphi. Appena seppi nel 1964 di quel loro portentoso omaggio a Carlo Dossi, l’edizione apprestata graficamente da Enzo Mari di Note azzurre – il libro più censurato dell’intero novecento letterario italiano, e del resto la stessa edizione Adelphi è monca –, mi precipitai a chiederne loro una copia da segnalare sulla rivista che avevo appena fondato, Giovane critica. Me la mandarono e ancora li ringrazio. Quella copia oggi troneggia sullo scaffale della mia biblioteca dove sono schierati tutti i libri di Dossi in prima edizione.
Roberto Calasso a parte (il più grande intellettuale italiano degli anni a cavallo tra i due millenni), il nome che noi patiti dell’Adelphi più fatalmente colleghiamo alla casa editrice milanese è quello altrettanto leggendario di Bobi Bazlen. Uno che non poteva non essere un ebreo triestino (nato nel 1902, morto a Milano nel 1965), quello che a metà degli anni Venti aveva portato i romanzi di Italo Svevo a Eugenio Montale raccomandandogliene la lettura, quello che Daniele Del Giudice in un bel suo libro ha definito “il più grande non scrittore italiano del Novecento”. Sì, perché da vivo Bazlen non ha pubblicato un libro che sia uno. Né aveva il tempo né gli interessava, dato che a lui premeva leggere i libri degli altri – meglio ancora se di autori perfettamente ignoti alla cultura corrente del nostro Paese – per poi raccomandarne la pubblicazione a editori che pendevano dalle sue labbra. La Einaudi gli mandò l’edizione tedesca dell’Uomo senza qualità di Robert Musil, lui ci mise due mesi a leggerlo per poi scrivere a Einaudi una breve lettera/capolavoro in cui gli dice di pubblicarlo senz’altro. Vai a cercare su Amazon “i libri di Bazlen” e non ce n’è uno se non quelli che Calasso apprestò dopo la sua morte utilizzando lettere private e ritagli di giornale. Ho guardato online a bocca aperta il video di una che lo conobbe a puntino, Franca Malabotta (moglie del mitico notaio e collezionista triestino Manlio Malabotta nato nel 1907 e morto nel 1975). Faceva parte della biblioteca Malabotta un groppo di lettere di Bazlen a Saba che il libraio antiquario triestino Simone Volpato ha venduto alla Biblioteca nazionale. Un ammaliante scambio epistolare del secondo dopoguerra tra Bazlen e Anita Pittoni – ennesimo personaggio leggendario del milieu triestino –, quello Volpato lo ha venduto al sottoscritto. E l’Adelphi da cui ero partito? Me lo sto divorando pagina dopo pagina.