Roberto Calasso (Ansa) 

uffa!

Adelphi e il dilemma fra testimonianza intellettuale e retaggio antisemita

Giampiero Mughini

L’affaire editoriale Schmitt-Bloy: il mettere assieme l’uno accanto all’altro i libri dei due controversi autori alterava la latitudine culturale della casa editrice milanese? Il dibattito fra Calasso e Foà

Per il tedesco Carl Schmitt (nato a Plettenberg nel 1888, dov’è morto il 7 aprile 1985 prima di compiere i 97 anni), uno dei massimi intellettuali europei del Novecento, gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale furono anni di umiliazione pubblica al limite della più cupa disperazione. Lui che aveva esplicitamente aderito al partito nazista dal 1933 al 1936, e che aveva ragionato i roventi viluppi europei degli anni Trenta non per come avrebbero dovuto essere ma per come brutalmente erano, era stato internato dai “vincitori” in un campo dalle parti di Berlino tra il settembre del 1945 e il marzo del 1946, e finché non venne trasferito nella prigione per criminali di guerra a Norimberga quale possibile testimone al processo contro i maggiori responsabili del nazismo. Era più o meno larvatamente accusato di avere apprestato l’armamentario intellettuale che avesse legittimato le successive guerre di conquista e distruzione di Adolf Hitler. All’arrivo degli Alleati era stato immediatamente recesso dall’insegnamento universitario ed espulso dall’Associazione dei giuspubblicisti tedeschi. Era la seconda tragedia della sua vita personale dopo che nel 1924 la sua prima moglie se n’era andata portandosi via gli arredi di casa e parte della biblioteca del marito. Alla fine del 1946 le accuse nei suoi confronti vennero lasciate cadere, il pubblico accusatore americano che lo aveva interrogato a lungo lo congedò non senza una qual certa deferenza, e Schmitt poté tornare a Plettenberg, una piccola città della Vestfalia. Gli restava solo e soltanto di che girovagare alle altezze vertiginose della sua cultura sterminata, di stenografare sui suoi diari appunti di lettura o magari copie delle lettere che spediva a Ernst Jünger, di abbozzare via via i libri pubblicati nel secondo Dopoguerra e ai quali tutti era comune il rovello che lui sì aveva potuto sbagliare nell’accettare il nazismo del 1933 ma che quello era stato “un errore intellettuale” e non un crimine. “Tutto ho attraversato da parte a parte e tutto mi ha attraversato da parte a parte”, scrive nei diari compilati tra il 1947 e il 1951 che costituiranno il libro suo più drammatico di tutti, il Glossarium pubblicato postumo in Germania nel 1991. Ne sto leggendo la meritoria versione italiana pubblicata da Giuffrè nel 2001 (Glossario, a cura di Petra Dal Santo). Ebbene è un libro immane e che quanto alla sua edizione italiana ha una storia tormentata.

Una storia di cui avevo appreso i particolari nel leggere il bel libro di Anna Ferrando, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), di cui vi avevo parlato su queste pagine. Solo che nel farlo avevo volutamente tralasciato di commentarne l’ultimo capitolo, dove la Ferrando racconta una sorta di piccolo sconquasso avvenuto nella casa editrice milanese, quella che tra i suoi infiniti meriti ha l’avere pubblicato una decina di libri di Carl Schmitt sì da farlo diventare un autore noto al più “riflessivo” pubblico italiano.

C’era che già nel 1994 Roberto Calasso, capintesta di un’Adelphi che s’era conquistato un ruolo di eccellenza nel panorama editoriale italiano, aveva pubblicato Dagli ebrei la salvezza, un pamphlet datato 1892 dello scintillante quanto controverso scrittore cattolico francese Léon Bloy, al quale in molti rimproveravano di avere costeggiato l’antisemitismo ampiamente diffuso nel suo paese. Al punto che Luciano Foà, l’altro personaggio cruciale nella storia dell’Adelphi, ricevette una lettera a dir poco tonitruante del critico letterario Cesare Segre, il quale accusava la casa editrice milanese di avere pubblicato “un libro immondo”. Parole allarmanti per Foà, il quale già nel dicembre 1933 aveva espresso a Calasso la sua contrarietà a che il libro di Bloy portasse il marchio dell’Adelphi. Allarme accresciuto dal fatto che l’Adelphi avesse in calendario la imminente pubblicazione del fatidico Glossarium, apparso in Germania pochi anni prima. Libro che secondo Foà manifestava quanto fosse inguaribile il filonazismo del grande pensatore tedesco. Sì o no il mettere assieme l’uno accanto all’altro i due libri di Bloy e Schmitt alterava la latitudine culturale della casa editrice milanese? Al che Calasso replicava con ricchezza di argomenti che con l’uno e con l’altro libro si dovevano fare i conti, e del pubblicarli lui ne faceva una condizione della sua permanenza alla testa dell’Adelphi. Solo che il Glossarium non è mai apparso con quel marchio editoriale.

L’ho detto, è un’immane testimonianza intellettuale di chi in quella tragedia della storia europea e mondiale era immerso fino al collo, di chi prendeva atto della sconfitta politica e militare della gente che era stata la sua, ma non ne accettava la criminalizzazione sempre e ovunque. E soprattutto non accettava di essere giudicato da un tribunale ideologico, da quei tribunali che si facevano forti di leggi che non esistevano al tempo in cui quei “crimini” furono commessi. Dice di Benito Cereno, il protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville, che giudicato da un tribunale della Marina militare avrebbe qualche possibilità di farla franca; ove comparisse innanzi a un tribunale specialmente destinato a lottare contro l’imperialismo spagnolo non avrebbe via di scampo. Schmitt scrive sotto scacco intellettuale, ma non vuole apparire come uno che ha dato base ideale a dei crimini. “Ho provato le sconfitte della guerra civile, inflazione e deflazioni, rivoluzioni e restaurazioni, mutamenti di regime e scoppi di tubazioni, riforma monetaria, bombardamenti e interrogatori, campo di concentramento e filo spinato, fame e freddo, vestiti laceri e terribili bunker. Fui (sono) discriminato, diffidato e smontato”. Non andava pubblicata una tale testimonianza di prima mano sul tempo più atroce della storia europea?