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Colpevole o no, quel che resta di Robert Brasillach è il suo coraggio nell'ora fatale
Lo scrittore francese fu la più illustre fra le vittime dell’“epurazione” dopo la Seconda guerra mondiale. De Gaulle disse di no, che quello scrittore trentaseienne che aveva firmato alcuni articoli indecenti in fatto di antisemitismo non meritava la grazia
In fatto di uomini reali c’erano davvero di tutte le risme possibili nella Parigi di quei quattro anni in cui a farla da padroni erano stati i nazi che nel giugno 1940 avevano sbaragliato in pochi giorni l’esercito francese. C’erano francesi che denunciavano alla Gestapo altri francesi perché ebrei; c’erano giornalisti e intellettuali i quali reputavano che la supremazia del nazismo sulla Terza Repubblica francese fosse stata una supremazia ideale e non soltanto militare; c’erano al contrario uomini politici e ufficiali dell’esercito francese il cui cuore batteva all’unisono con il cinquantenne generale Charles de Gaulle che nella stanzuccia di una rete radiofonica londinese il 18 giugno 1940 aveva pronunciato che la Francia sarebbe risorta; c’erano militanti comunisti che non vedevano l’ora di colpire a morte per strada un ufficiale tedesco e anche se questo avrebbe comportato cinquanta ostaggi francesi uccisi a loro volta; c’erano, probabilmente la grande maggioranza, tantissimi parigini che oscillavano tra il temere i nazi occupanti e l’orgoglio dell’identità francese repubblicana che era la loro.
Uno di questi ultimi Claude Jamet, nato a Parigi nel 1910, uno che da studente era stato allievo al liceo “Henry-IV” del filosofo Alain, uno dei grandi personaggi della cultura liberale francese tra le due guerre. Jamet negli anni Trenta aveva aderito al Partito socialista francese, aveva combattuto nel 1940 tanto da cadere prigioniero dai tedeschi e raccontare l’esperienza della disfatta militare francese nei Carnets de déroute del 1942. E anche se il suo libro di gran lunga più famoso sarà il successivo Fifi Roi del 1948, quello che racconta a meraviglia l’immediato dopoguerra francese. Ho macinato per la prima volta il nome e la fisionomia intellettuale di Jamet quando ho letto il libro dov’erano raccolti gli atti di un incontro che lui aveva voluto e organizzato nel 1964, Le rendez-vous manqué de 1944, dove si erano trovati di fronte uomini che avevano accettato di “collaborare” con i tedeschi e altri che quell’ipotesi l’avevano combattuta dal primo istante. Jamet ne stimolava il confronto a ragion veduta. Lui che in tutto e per tutto aveva scritto alcuni articoli sulla stampa “collaborazionista” e in particolare uno dove malediceva un micidiale bombardamento alleato su Parigi, poco dopo l’arrivo degli alleati a Parigi era stato schiaffato in cella, dove rimarrà quattro mesi. Dei quali una buona parte trascorsi nel fatidico penitenziario di Fresnes, dove c’erano la bellezza di 1.800 celle atte a ricevere i “collaborazionisti” o presunti tali. Sempre meglio le celle di Fresnes che essere assassinati in una strada di Parigi a come veniva veniva o, per quel che era delle donne, essere rasate a zero e portate in giro completamente nude mentre tutt’attorno le insultavano o sputavano loro addosso. Ebbene, a cinquanta metri dalla cella dove venne recluso Jamet c’era la cella dove in quelle stesse settimane trascorse l’ultimo tratto della sua vita lo scrittore francese più illustre fra le vittime dell’“epurazione”, Robert Brasillach.
Nato nel 1909, allievo del prestigioso liceo “Louis-le-Grand”, ben presto sedotto dalla furia polemica antirepubblicana di Charles Maurras, nel 1928 Brasillach si guadagna l’ammissione all’École Normale Supérieure di rue d’Ulm, la vetta del sistema universitario francese. Poco dopo entra a far parte dell’équipe redazionale del Je suis partout, una rivista che l’antisemitismo lo cucina furiosamente da mane a sera. Solo che quando lui se ne va all’est e scopre che cosa vi succedeva agli ebrei sotto il dominio nazi, dice che di ebrei non scriverà mai più. All’arrivo degli alleati a Parigi, arrestano sua madre. Pur di farla liberare lui si consegna ai “vincitori”. Il suo processo, che comincia nella tarda mattinata del 19 gennaio 1945, dura poche ore. La giuria, fatta da gente i cui familiari avevano subìto violenze dai tedeschi, prende la sua decisione in venti minuti. La sentenza ne è la condanna a morte, che verrà eseguita alla mattina del 9 febbraio 1945. Vana era stata la supplica fatta dal fior fiore della cultura francese del tempo, che gli venisse concessa la grazia. De Gaulle disse di no, che quello scrittore trentaseienne che aveva firmato alcuni articoli indecenti in fatto di antisemitismo meritava la fucilazione.
Sono indimenticabili le pagine che alla sorte di Brasillach dedicherà Jamet nel Fifi Roi. Ve le traduco: “Ho appena saputo della condanna a morte di Robert Brasillach. Dopo Suarez, Paul Chack, Puységur, Béraud, è la serie – rossa – che continua. Ma questa è quella che mi tocca più da vicino. Come non esserne sconvolto? Brasillach non era uno dei miei amici. A quel tempo, all’École, noi due eravamo cane e gatto; lui discepolo di Maurras, io di Alain: lui già lanciato in piena Action Française, io che scribacchiavo di tanto in tanto su L’Université Républicaine. Non eravamo dallo stesso lato della barricata […] Ciò non toglie che due o tre anni li abbiamo vissuti fianco a fianco […] Ci vedevano qualche volta, avevamo tutto uno spicchio di ricordi in comune: il fornello su cui la teiera si scaldava in permanenza; il piccolo divano grigio colmo di polvere; il fonografo, i nostri libri, le nostre immagini – di cui mi ricordo così bene – parlano ancora al mio cuore, come al suo, della nostra giovinezza […] Non so, non voglio sapere se è stato colpevole o a che punto. So soltanto che è stato coraggioso alla fine, che è restato in Francia laddove avrebbe potuto fuggirsene altrove”. Jamet cercò di fargli arrivare una sua lettera, ma il guardiano della prigione si rifiutò di farlo perché rischiava la galera. Glielo portò a voce il saluto di Jamet, che Brasillach apprezzò molto. Nella sua cella stava aspettando la morte con le caviglie legate l’una all’altra, in modo da poter fare solo qualche piccolo passo.