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Nella torrida Firenze del 1944 anche le fascistissime dame sparavano dai tetti
Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con cautela lungo i quartieri celeberrimi del centro storico mentre, nascosti dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira qualcosa come tra duecento e trecento tiratori. Una storia magnificamente raccontata da Luca Tadolini ne "I franchi tiratori di Mussolini"
Agosto è il mese dell’anno in cui il selciato della città di Firenze avvampa e brucia. Ebbene, nella prima decade del mese di agosto del 1944 su quel selciato misero i piedi a tutta forza, spalleggiati da agguerrite brigate partigiane, gli avamposti delle truppe angloamericane che stavano ascendendo lungo le città dello stivale dopo aver conquistato la Sicilia, Napoli, Roma. Il 4 agosto, dopo avere abbandonato la riva sinistra dell’Arno (altrimenti detta Oltrarno o Diladdarno), i tedeschi eccezion fatta per il Ponte Vecchio fecero esplodere tutti i ponti che collegavano le due sponde del fiume. Anziché consumarsi in una difesa di Firenze largamente impossibile, volevano appostare la loro forza intatta dietro le poderose fortificazioni che avevano eretto sugli Appennini a costituire la cosiddetta Linea gotica. Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con cautela lungo i quartieri celeberrimi del centro storico del capoluogo fiorentino, quelle piazze e quei monumenti cui si abbeverano da sempre turisti di tutto il mondo. Ho detto con cautela perché disseminati sui tetti di palazzi famosi, nascosti dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira contro angloamericani e partigiani qualcosa come tra duecento e trecento franchi tiratori fascisti muniti di munizioni e di viveri. Erano stati scelti e motivati dal capintesta del fascismo fiorentino, quell’Alessandro Pavolini poco più che quarantenne che si muoveva a suo agio tanto nelle cose della cultura quanto in quelle dell’azione politica la più partigiana e violenta. Alcuni di loro erano degli irriducibili fascisti della prima ora, altri dei men che diciottenni che portavano ancora i calzoni corti, c’erano anche alcune donne su quei tetti e non pochissime, donne che da come erano vestite appartenevano senz’altro alla borghesia benestante, probabilmente mogli o figlie di borghesi fascistissimi.
In un suo articolo era stato nientemeno il più diffuso quotidiano inglese, quel Daily Mirror che durante la Seconda guerra mondiale toccò il vertice di due milioni di copie vendute giornalmente, a segnalare che nella Firenze dell’agosto 1944 le forze alleate avevano catturato la bellezza di 25 “franche tiratrici”. Ben 25 donne più o meno fascistissime che si erano appostate sui tetti e avevano preso la mira, o che avevano aiutato qualcuno al loro fianco a trovare il bersaglio e a puntarlo. Fu uno che disegnava le copertine settimanali della Domenica del Corriere a raccontare quel che marchiava in quel momento la vita italiana, parlo del grande Walter Molino, che dedicò la copertina del 17 dicembre 1944 a una scena di battaglia che si stava svolgendo a Ravenna. Una scena che di certo gli era stata sollecitata da quel che sapeva essere avvenuto a Firenze nell’agosto precedente. Viste da dietro e un po’ dall’alto, nella tavola di Molino sono cinque le figurette appollaiate sul tetto di una casa e mentre giù in fondo ci sono dei soldati americani che fuggono e cadono. Due dei cinque sono degli uomini che stanno puntando e sparando con i loro fucili, uno è un ragazzetto con i calzoni corti che ha in mano un gran bel sasso da scaraventare addosso agli americani, la quarta è una donna dal corpo disegnato a meraviglia a far capire che si tratta di una donna e che sta sparando anche lei, la quinta è un’altra donna che sta accorrendo alla bisogna con un fucile in mano e l’aria di chi sa quel che deve fare. Un’apoteosi insomma dei franchi tiratori fascisti siano essi uomini o donne. Solo che non era roba di tutti i giorni disegnare sulla copertina di un settimanale popolare la figura di una donna che stava sparando da un tetto con l’aria di saperci fare non meno di un uomo. La tavola fa da copertina di un libro da cui ho immensamente attinto nel raccontarvi questa storia (Luca Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini, Edizioni del Veltro, 1998).
L’efficacia militare di quei franchi tiratori nell’infliggere perdite ai “liberatori” di Firenze e nel ritardare la loro presa di possesso della città fu tale che il commissario politico della divisione di partigiani comunisti che prendeva il nome dal comandante “Potente” morto in combattimento, chiese a un certo punto il permesso di poter fucilare a titolo di rappresaglia dieci fascisti riconosciuti come tali per ogni partigiano o civile ucciso dai franchi tiratori. Voleva fare né più né meno quel che fecero i nazi a Roma dopo l’agguato di via Rasella, ucciderne dieci contro ciascuno della sua parte caduto in combattimento. Per fortuna nessuno diede ascolto a questo proposito belluino.
In quell’agosto del 1944, io che avevo tre anni vivevo in una casa fiorentina assieme a mio padre che di anni ne aveva aveva 45 e a mia madre che ne aveva 26. Una di quelle mattine della prima decade di agosto bussarono alla porta di casa nostra e mia madre andò ad aprire. Erano due o tre partigiani fiorentini che volevano piazzare una mitragliatrice leggera sul davanzale di una finestra di casa nostra. Purtroppo non ho più da chiedere a mio padre o a mia madre se casa nostra stesse al di qua o al di là dell’Arno, e magari capire se i partigiani volevano usare la mitragliatrice contro i tedeschi o contro i franchi tiratori. Si accorsero che l’angolo di tiro non era buono e lasciarono perdere. Quando arrivarono a casa nostra mio padre non c’era. Da fascista convinto e militante quale era stato dapprima nella Marradi in cui era nato e poi nella Catania dove aveva sposato in camicia nera mia madre, s’era acquattato non so dove. Non era il caso che restasse ad aspettare qualcuno che gli avrebbe chiesto conto e ragione del suo passato. Qualcuno che nella Firenze dell’agosto 1944 difficilmente si sarebbe comportato da “cristiano”, a dirla con il Curzio Malaparte che ai franchi tiratori fiorentini dedicò un indimenticabile capitolo de La pelle, il suo romanzo del 1949.