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La verità sulla battaglia di El Alamein, dove mancò tutto meno che il valore
Sono pochi gli italiani del nostro tempo che abbiano mai sentito pronunciare il nome di quella località fatale della Seconda guerra mondiale. Una storia da recuperare che racconta Alfio Caruso nel magistrale libro "L’onore d’italia”
Nel rileggere col fiato in gola la nuova edizione del magistrale libro di Alfio Caruso, L’onore d’Italia (Neri Pozza, 2023) consacrato alla prima e alla seconda battaglia di El Alamein, quella di cui i soldati italiani purtroppo alleati dei tedeschi non devono vergognarsi di come l’hanno perduta nell’ottobre/novembre del 1942, mi sono chiesto quali e quanti cittadini italiani del nostro tempo abbiano mai sentito pronunciare il nome di quella località fatale della Seconda guerra mondiale. Non certo i ventenni e forse nemmeno i quarantenni. Probabilmente solo qualcuno che abbia sugli scaffali della sua biblioteca qualche libro che racconti quel che è successo alle generazioni italiane precedenti alla sua, e dunque alla generazione italiana il cui torto fu quello di avere attorno ai vent’anni quando sulle sabbie roventi del deserto africano furono chiamati a impattare con quei carri armati detti “scatole per sardine” i carri armati inglesi Sherman da 34 tonnellate ciascuno. Che indossassero le divise di un esercito fascista era secondario, non lo avevano scelto loro. E del resto Benedetto Croce lo aveva detto alla sua maniera: “Quando la Patria entra in guerra, non ci sono dubbi o remore che tengano; si va e, costi quel che costi, si fa il proprio dovere”.
Mi chiedo anche quanti siano gli italiani a conoscenza dell’esistenza del Sacrario militare di El Alamein – che onora quelli che fecero il proprio dovere, e fra di loro una caterva di medaglie d’oro al valor militare – eretto al chilometro 120 della litoranea che da Alessandria d’Egitto porta a Marsa Matruh. Lo aveva voluto e portato a termine a tutti i costi un ufficiale italiano e medaglia d’argento al valor militare che a El Alamein aveva combattuto e che non era niente affatto un fascista, Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo (nato nel 1896, morto a Roma nel 1992), uno che ci mise dieci anni a recuperare e dar loro sepoltura al più possibile dei caduti in quella battaglia che erano stati dati per dispersi, fossero soldati italiani o tedeschi o inglesi. Soldati che quando si imbattevano gli uni negli altri in azioni di pattugliamento e non era indispensabile l’ammazzarsi a vicenda, lo racconta Caruso, si passavano le sigarette e le fumavano assieme.
Prima della battaglia di Stalingrado, quella di El Alamein fu la battaglia che interruppe la serie dei trionfi militari tedeschi. Le cui truppe erano guidate in Nordafrica da uno dei geni militari della guerra moderna, della guerra basata su azioni rapide e avvolgenti dei carri armati, il feldmaresciallo Erwin Rommel (nato nel 1891, morto suicida nel 1944 dopo che s’era scoperto che lui appoggiava la congiura dei militari contro Hitler). Dato che fino a quel momento le sue offensive avevano provocato gravi danni all’esercito alleato in Libia, che non aveva fatto altro che subire sconfitte su sconfitte e retrocedere fino al confine con l’Egitto, nel giudizio di molti la prima battaglia di El Alamein (dal nome della linea di difesa su cui si erano assestati gli inglesi), quella cominciata il 1° luglio 1942, sembrava dovesse coincidere con il colpo di grazia inflitto dai tedeschi e dai loro alleati italiani. Soldati italiani di cui Rommel elogia il valore militare tutte le volte che può, ma che ci fanno la figura di pulcini nel confronto con le due gigantesche armate e con i mezzi di cui disponevano. I nostri aerei da combattimento viaggiano a 300 chilometri l’ora, quelli degli inglesi al doppio. I fucili dei nostri soldati sono in buona parte ancora quelli della Prima guerra mondiale. Le granate anticarro sparate dai nostri cannoni contro i carri armati inglesi sono tali che l’effetto da loro provocato viene chiamato dai nostri stessi soldati “effetto pernacchia”. E poi c’è che in quell’ultima settimana del luglio 1942 agli inglesi arrivano 500 mila tonnellate di rifornimenti e munizioni, laddove alle truppe italo-tedesche ne arrivano appena 13 mila. La marina inglese, a cominciare dai loro sottomarini, era divenuta padrona del Mediterraneo e affondava immancabilmente le nostre navi che portavano di che rifornire i combattenti di prima linea. E’ nelle acque del Mediterraneo che gli inglesi vincono la seconda battaglia di El Alamein. La superiorità in armi e strumenti di guerra degli inglesi diventerà straripante. Gli inglesi arrivarono a scagliare 1.300 tonnellate di bombe sulle posizioni dell’Asse, vale a dire alcune tonnellate di bombe per metro quadro.
E pur tuttavia i soldati italiani della generazione la più sventurata di tutto il Novecento si batterono mirabilmente. Era qui che volevo arrivare, alla lettera (pubblicata in coda alla nuova edizione del libro di Caruso) che Caccia Dominioni manda al generale inglese Sir Bernard Law Montgomery (il vincitore di El Alamein) dopo avere letto un suo libro in cui dava un giudizio sprezzante dei soldati italiani, di cui dice che era bastato attaccarli “a scopo dimostrativo”. E’ una lettera che ciascun italiano degno di questo nome dovrebbe imparare a memoria, oltre a essere una sconcezza il fatto che a Milano non esiste una strada o una piazza che porti il nome di Caccia Dominioni (Beppe Sala, amico mio, mi sto rivolgendo a te). Così scrive Caccia Dominioni: “Mio Lord, I Suoi Carri ci piombarono addosso in un battibaleno [Perché conoscevano le strade che non erano state minate degli stessi inglesi. Nda], accompagnati da fanterie poderose. Eppure l’enorme valanga, per quattro giorni e quattro notti, fu ributtata alla baionetta, con le pietre, le bombe a mano e le bottiglie incendiarie fabbricate in famiglia. La Folgore si ridusse a un terzo, ma la linea non cedette neppure dove era ridotta a un velo. Nel breve tratto di tre battaglioni attaccati, Ella lasciò in quei giorni seicento morti accertati […] E questa è una strage da attacco dimostrativo?”.