Uffa!
In arte Pitigrilli. Nel bene e nel male: enigma di uno scrittore-personaggio
Raccontare Dino Segre. Un libro auotobiografico su una figura controversa e dibattuta, disinteressata alla politica eppure così vicino a essa
E’ singolare che in un’epoca come la nostra, in cui a dare l’identità più riconosciuta di un libro è la quantità di copie vendute, resti talmente evanescente nelle ricostruzioni correnti della nostra storia culturale la figura di Dino Segre (nato a Torino nel 1893, morto nel 1975), in arte Pitigrilli, uno degli scrittori non soltanto italiani del Novecento che ha venduto più copie dei suoi tanti libri. Ne parlo come uno che ce l’ha nel sangue la passione per i “rompicazzi”, per quelli che non puoi etichettare una volta per tutte e le cui biografie non sono state degli esempi di santità, a cominciare dalla notissima accusa rivolta a Pitigrilli di essere stato negli anni Trenta, con il numero di codice 373 e previo compenso di 5000 lire mensili, un informatore dell’Ovra fascista. Un informatore prezioso perché da non adepto del fascismo veniva accolto favorevolmente da personaggi apicali dell’antifascismo quali Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Vittorio Foa. Al punto che Foa andò a scrivere un articolo per Giustizia e libertà a casa dello stesso Pitigrilli, battendolo a macchina alla sua Remington.
Accuse a Pitigrilli che per la prima volta erano state formulate in un’emissione radiofonica del 1943 di Radio Bari, e che vennero ufficializzate il 2 luglio 1946 nel supplemento della Gazzetta Ufficiale dov’erano riportati i nomi degli informatori dell’Ovra fra i quali quello di “Segre Dino fu Davide e fu Ellena Lucia, nato a Torino il 9-5-1893, domiciliato a Torino corso Peschiera n. 28, scrittore pubblicista”. L’accusa di essere stato ad esempio uno che agli occhiuti spioni dell’Ovra riferiva così di Giacomo Debenedetti, uno dei grandi della nostra scena letteraria di metà Novecento: “Vi avevo scritto che non so nulla di Giacomo De Benedetti da Torino, abitante in Corso Maurizio 36. Ora so che è un letterato noiosissimo, amico di Massimo Bontempelli con il quale ha fatto un viaggio nel Nord Europa; lettore di Proust è un sognatore sotto alimentato che si nutre di yoghourt e di poesia”. E fin qui non saremmo altro che ai pettegolezzi di cui si nutrono e si nutriranno sempre i letterati invidiosi come sono l’uno dell’altro. Più insinuanti e talvolta compromettenti erano le informazioni contenute nelle missive raccolte e pubblicate nel 1961 (Lettere di una spia, Sugarco editore) da un sodale di Pietro Nenni, Domenico Zucàro, divenuto un accusatore implacabile del Pitigrilli che aveva giostrato a favore dell’Ovra. Quel libro lo leggemmo in molti, col risultato che nel secondo dopoguerra ne venne sepolta la memoria dell’uomo e dello scrittore Pitigrilli.
Da parecchi anni invece a me è rimasto l’uzzolo di saperne di più di un personaggio comunque singolare nel bene e nel male, senza dimenticare che nella rete delle sospette spie del fascismo era rimasto a suo tempo incagliato un altro personaggio eccezionale del nostro Novecento, l’ex comunista Ignazio Silone. E dico questo a marcare che la società reale è tutto fuorché divisa tra inguaribilmente Buoni e inguaribilmente Cattivi e che vi si muovono numerosi quelli che traghettano continuamente dall’una all’altra sponda. Ho letto perciò quattro o cinque tra libri di Pitigrilli e libri a lui dedicati. Mi è piaciuto molto quel suo romanzo del 1936, Dolicocefala bionda, con la splendida copertina ideata da Erberto Carboni, con Bruno Munari e Max Huber uno dei designer che primeggiavano nel celebre Studio Boggeri di Milano. Mi sono dato a comprare alcuni numeri de Le Grandi Firme, la prestigiosa rivista che per un tempo vendette tra le 250 e le 300mila copie e che Pitigrilli aveva fondato a Torino nel 1924 per poi dirigerla pressoché ininterrottamente fino al 1937. E finché qualche settimana fa non mi è arrivata la riedizione per conto della OAKS editrice del Pitigrilli parla di Pitigrilli (il volume autobiografico pubblicato per la prima volta da Sonzogno nel 1949) arricchita da una succulenta introduzione di oltre 100 pagine di Fabio Andriola, un giornalista e un autore televisivo (nato a Brescia nel 1960) che bazzica Pitigrilli da oltre trent’anni e che l’intrico del suo male e dal suo bene ce lo racconterà giorno per giorno nella biografia che s’è prefisso di dedicargli.
Nel suo libro del 1949 (bello e ricco) Pitigrilli non aveva dedicato nemmeno una riga alle accuse di essere stato al soldo dell’Ovra, accuse che per tutta la vita lui aveva respinto sprezzantemente e in molti gli avevano creduto. Indro Montanelli uno di questi. Quanto a uno degli antifascisti torinesi che erano andati in cella a causa sua, Vittorio Foa, era solito dire alle sue figlie che Pitigrilli non lo aveva fatto per soldi ma per divertimento, perché s’era l’era spassata a interpretare il personaggio della “spia” come se lui fosse in un romanzo. L’accortissimo Andriola si mostra perplesso al riguardo. Non prende per buone le denegazioni di Pitigrilli ma neppure è convinto fino in fondo da quelle accuse o meglio da quelle che ne apparivano le ragioni. Lo aveva fatto per soldi? Non ne aveva alcun bisogno dato il successo di pubblico dei suoi romanzi talmente frizzanti e del suo lavoro da giornalista. Né era minimamente filofascista e seppure avesse implorato ripetutamente (invano) Mussolini di accettare la sua iscrizione al Pnf. Era un uomo che voleva vivere comodamente, questo sì, e da mezzo ebreo che era (da parte di padre) temeva che gliene venissero delle complicazioni nell’Italia reale dell’era fascista. Meglio proteggersene. Della politica non gliene era mai importato molto. Al modo di un suo personaggio, la cosa che gli premeva di più era leggere uno di quegli scrittori contemporanei _ “tre o quattro per ogni nazione” – che già alla seconda riga ti hanno rimborsato i dodici franchi (francesi) che costava in media un romanzo. Né aveva dubitato un solo attimo che in Italia uno di quei tre o quattro fosse stato lui.