(foto Ansa)

Uffa!

La nuda anima di Francesca Woodman, il genio infelice che pochi capirono

Giampiero Mughini

L'amore per l'Italia e gli anni romani della fotografa americana. Un libro che ripercorre la storia di un'artista giovane e tormentata

La libreria antiquaria Maldoror di Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi era un antro romano attiguo a Piazza Navona che nei miei trent’anni avevo preso a frequentare religiosamente. Dacché su quei loro scaffali avevo trovato dei libri che mi apparvero come i più belli da vedere e da toccare, le prime edizioni di alcuni futuristi italiani della prima ora o magari di alcuni romanzi degli anni Quaranta di Alberto Savinio.

Solo che in quell’antro e per dieci giorni del marzo 1978 ebbe luogo un evento destinato a entrare nella leggenda. Ossia una mostra di foto dell’allora diciannovenne studentessa americana (nata in Colorado, epperò innamoratissima dell’Italia) Francesca Woodman, la più parte autoritratti o meglio autorappresentazioni. E’ stata la prima e unica mostra dedicata da viva alla Woodman, che il 19 gennaio del 1981 si sarebbe lanciata giù dal quarto piano di un edificio di Manhattan. L’ultimissima foto di lei – che giace distesa sul selciato di New York – la scattò qualcuno di pattuglia al commissariato del Lower East Side cui aveva telefonato il padrone del ristorante accanto. Nel fare quella telefonata lui probabilmente “tremava”, ha scritto il cinquantaduenne Bertrand Schefer, un pregevole intellettuale americano (anche lui innamoratissimo dell’Italia, tanto da avere tradotto libri di Marsilio Ficino e di Giacomo Leopardi) che la Woodman la sfiorò in quegli anni romani e che le ha dedicato un libro/racconto, "Francesca Woodman", appena pubblicato in Italia (Johan & Levi editore, 2024).

Ebbene in quei dieci giorni di marzo del 1978 io c’ero entrato eccome nella libreria Maldoror di via del Parione ed ero rimasto a bocca aperta innanzi a foto che non avevano nulla in comune con qualsiasi altra foto mai vista prima o anche dopo. Il tema pressoché esclusivo ne era la Woodman ritratta quasi sempre nel chiuso di un ambiente interno, quasi ne fosse prigioniera. In quelle foto il più delle volte era nuda e senza che questo avesse il minimo sentore di un intento erotico o comunque autocelebrativo della sua giovinezza. Era nuda e basta, perché nuda era la sua anima – voglio dire sprovvista di qualcosa che la riparasse, che la proteggesse –, nudo il suo stare al mondo, il suo esserci qui e adesso senza avere nulla della vita reale cui appigliarsi. Nude erano quelle stanze, quegli interni, quelle pareti che facevano ogni volta da fondale alle foto. Mai che vi comparisse qualcun altro personaggio, impensabile che un qualche altro essere umano accettasse di starci in un contesto – spirituale ancor prima che fisico, materiale – il cui gelo trasudava da ogni poro. Ventitré foto in bianco e nero una più bella dell’altra, il più delle volte in un formato piccolo. “Se vuoi essere un artista, devi essere molto infelice”, aveva detto una volta la Woodman e di quella materia lei ne aveva magazzinate da utilizzare. Schefer ne scrive benissimo: “Quegli appartamenti vuoti, in cui lei si mette in scena, sono come una sacca di tempo e di spazio, nella quale un rito si reitera continuamente. Riconosco quei luoghi senza esserci stato, somigliano ad altri che ho conosciuto, una luce identica li attraversa. In essi, qualcosa viene rivelato. Quelle immagini mi paralizzano. Mi chiamano, ma non so bene che cosa stiano provando a dirmi, da quale lato mi stiano afferrando”.

I due compari della Maldoror le vendevano allora a cinquantamila lire l’una per l’altra, solo che a quel tempo io con cinquantamila lire ci pranzavo e cenavo per dieci giorni. E comunque quelle foto mi rimasero sul gozzo. Tanto che venticinque o più anni dopo entrai nella nuova libreria romana di Casetti e ne uscii proprietario di una foto della Woodman, o meglio di un trittico di sue foto l’una stampata accanto alle altre a farne un’unica grafia narrante, il tutto che occupava uno spazio non più grande di una cartolina standard. Non ricordo quante centinaia di volte in più delle famose cinquantamila lire l’avevo pagata. Ne ero felicissimo, e peggio per me che nel marzo 1978 non avevo saltato dei pranzi e delle cene pur di acquistare una di quelle foto da cui era come se gocciolasse sangue. La foto della Woodman la conservo in un angolino il più nascosto di casa mia. Rarissimamente la mostro ai miei ospiti, non tutti sono atti ad apprezzare un talento creativo che giungeva a tali livelli di autodistruttività.

Suo padre le aveva regalato la prima macchina fotografica quando lei aveva tredici anni. Questa macchina è la Yashica 635, la sorellina giapponese della leggendaria Rolleiflex biottica. Ed è, dice Schefer, come se a un principiante avessero regalato un violino e lui subito ne traesse un’incantevole sonata. Come se lei ci fosse nata con quello strumento, che nelle sue mani diventa creativamente più potente che non l’odierno ordigno che genera l’intelligenza artificiale. I suoi genitori, dei borghesi raffinati e ambiziosi, al momento di iscriverla al liceo nel 1972, la mandano alla Phillips Abbot Academy, in una piccola città del Massachusetts, un istituto rinomato per i suoi corsi d’arte. Lì dove hanno studiato fra gli altri i due presidenti Bush, John Fitzgerald Kennedy, Humphrey Bogart, il grande fotografo americano Walker Evans, l’artista minimalista Frank Stella. Lì dove teneva dei corsi di fotografia Wendy Snyder MacNeil, una brunetta trentenne che per un tempo sarà per Francesca più e meglio che una docente. Le estati, quelle sono da lei dedicate ai viaggi nell’amatissima Italia. Dopo uno di quei viaggi ci resta più a lungo a Roma, nell’appartamentino di via dei Coronari 60. Incontra Casetti e Missigoi e una volta lascia scivolare sotto la porta della libreria una sua foto con una dedica a “Cristiano” (nome di battaglia di Casetti). Tornata in America, fino alla sua morte mai più una galleria vorrà ospitare le sue foto, oggi presenti e magnificate nelle collezioni di tutti i più importanti musei d’arte al mondo.

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