(foto LaPresse)

Uffa!

Il nulla del dibattito politico italiano nelle voci urlate per darsi ragione

Giampiero Mughini

Purtroppo niente di scattante, niente di inaspettato, niente di imprevedibile, niente di sterzante che ti faccia scartare dalla via più obbligatoria, dalla via più facilona che ti conduce al niente

La primissima versione di questo scrittarello del martedì sul Foglio cui mi aveva convitato Claudio Cerasa mi pare l’avessi scritta nell’ordine delle diecimila battute o forse più, che non sono poche sulla pagina di un quotidiano. Ne ero soddisfatto, il brodo mi pareva sufficientemente lungo e denso, da affondarci il cucchiaio e ritrarne bocconcini appetitosi da gustare. Ero tutto contento di aver afferrato per il collo la mia preda intellettuale, di avermene fatta una medaglia al valore. C’ero andato a fondo. Avevo scavato entro alle viscere dell’argomento. Mi ci ero dato a un rumoroso debutto che credevo spumeggiante. E invece non era affatto così, quanto piuttosto il mio era invece il fiasco del debuttante. Il brodo per l’appunto sbrodava da tutte le parti del piattino, lì dove abbisognavano cinque o dieci parole ce ne avevo ficcato  quindici o venti. Avevo allungato  e allungato e allungato e messo punti e virgole troppo lontani gli uni dagli altri. Anziché battere secche le parole e i pensieri e i costrutti che ne venivano li spalmavo come su una fetta di pane da assaporare lentamente. Tutto il contrario di quando le parole si incrociano armi alla mano, si spingono le une le contro le altre spalle al muro, si tolgono l’aria a vicenda da quanto il pensiero dell’uno vuole acciuffare il pensiero dell’altro, rubarglielo e farlo suo e inventarsene una sua danza di gioia. Tutto il contrario di quando le parole diventano narrazione, prosa acuminata e palpitante, racconto che brucia quello o questo istante dello stare al mondo.

Per mia fortuna il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, me lo raccomandò pressoché immediatamente di scorciare, di togliere al pezzo non meno di 50-60 battute se non addirittura un centinaio. Scrivere meno era infinitamente più salutare che scrivere più a lungo. Sacrosanta raccomandazione. Presi il raspello, cominciai a raschiare. Toglievo, toglievo, era facilissimo. Mi rendevo conto che stavo buttando via il superfluo e nient’altro che il superfluo, che stavo dando ritmo e velocità alla pagina, che se ci fossero state quelle venti battute in più sarebbero valse men che zero. Stavo mettendo meno, meno, meno, solo l’essenziale perché solo l’essenziale conta. Solo quello arriva al cuore del lettore, gli lascia una traccia, lo lascia solo con se stesso e con le sue inquietudini.
Allibisco ogni volta quando su un articolo di giornale ne leggo le prime trenta righe senza riuscire ad afferrare il nocciolo del contendere, il perché e il come del pezzo. Sbalordisco tutte le volte quando alla trentesima riga di un articolo che sto leggendo non ho ancora afferrato quale sia il nocciolo del contendere. E questo quando l’attenzione che ti riserva il lettore odierno medio si fa sempre più risicata, sempre più avara, poco più di un battito d’occhio e mentre lui sta pensando ad altro.
Vale tutto questo quando stai scrivendo, ma vale altrettanto quando parli o meglio quando conversi con un amico che ti sta a cuore, quando stai raccontando quel che hai fatto ieri e con chi l’hai fatto e che cosa vi stava particolarmente al cuore. Vai al sodo, misura le parole, presta attenzione a quel che ti stanno dicendo, fai come se le parole che pronunci siano fatte di quel metallo che ha nome oro, fai che le parole si ascoltino abbiano un’eco che non si spegne. Fai che le parole abbiano una punta, che entrino nell’anima e ci restino a tenerci compagnia forse per sempre. Purtroppo le cose non vanno così. Il tuo interlocutore pensa a quello che farà domani e non a quello che sta facendo adesso. E’ semplicissimo: lui pensa con tutta la sua forza a tutt’altra cosa. Bene che vada ti ascolta a metà, male che vada pensa tutt’altra cosa. Il tuo interlocutore e non a quello che gli stai dicendo. Il tuo interlocutore ti ascolta a metà, ti pensa a metà, volge ad altro.

Non ne parliamo poi di ciò che è divenuto il discorso pubblico, il cianciare rumoroso di chi sta da una parte politica contro il cianciare di chi sta dalla parte avversa. L’abbiamo scampata bella col rinunciare al duello che si era enunciato epico tra la Meloni e la Schlein che pure avrebbe dovuto far sobbalzare  il piatto della nostra democrazia repubblicana, Penso che la parola la più nuova da udire da quel duello sarebbe stata una parola in latino. E a ravvivare il tutto ci voleva la volgarità di un old type scagliato contro una “neonazista nell’anima”.

Linguaggio squisito altro che parlare in latino. A questo siamo. Cazzottoni in pieno volto, e poco importa che quei cazzottoni fossero rivolti al colore di un  volto di un personaggio del secondo millennio. Millennio prima o millennio dopo, l’importante è che ci siano orde grignanti che si avventano su altre orde grignanti. Voci che si mettono a ululare perché a questo modo pensano di avere le mille ragioni. Non una sfumatura intellettuale sui loro volti, non un ragionamento inedito, non una linea ironica sulle loro labbra, non una mossa elegante nel dar di spada, non una finta che esalti il pubblico. esigente Banalità, banalità, banalità. Cosucce arronzate alla belle e meglio. Io che ho ragione, tu che hai torto marcio. Io che difendo e proteggo il Bene, tu che che fai di tutto per mandare in malora gli sciagurati consacrati al Male.
Purtroppo. Niente di scattante, niente di inaspettato, niente di imprevedibile, niente di sterzante che ti faccia scartare dalla via più obbligatoria, dalla via più facilona che ti conduce al nulla. Dal nulla avevamo iniziato, al nulla siamo giunti.

Di più su questi argomenti: