Uffa!
Ceffoni, ceffoni, ceffoni. Ma basterebbe argomentare e non alzar la voce
Un poco di eleganza in più, per parlarci meglio. Come una stretta di mano tra un intellettuale di sinistra e uno di destra, quarant'anni fa
Che siano passati quarant’anni e dunque una vita, pare impossibile. Eppur in tempo di contrapposti fascisti e antifascisti italiani sono davvero passati quarant’anni da quando un giovine intellettuale di destra, Stenio Solinas, che fino a quel momento non avevo mai incontrato, mi si avvicinò con voce garbata a chiedermi se poteva darmi la mano nel segno del saluto da dare nientemeno a uno di sinistra quale io ero. Insomma non era così semplice che quarant’anni fa due coetanei si scambiassero la mano pur rappresentando due diversi e opposti marchi politici. Ovvio che alla richiesta di Solinas io rispondessi più che positivamente, ci mancava altro che mi rifiutassi di stringere la mano a un mio coetaneo che sapevo essere un intellettuale di valore e una persona per bene. Superfluo aggiungere che oggi io e Stenio siamo amici fraterni e che nella buona parte delle cose intellettuali del mondo andiamo d’amore e d’accordo, voglio dire di quell’amore e di quell’accordo che ne vale davvero la pena. Non per niente lui dirige oggi la tanto piccola quanto magnifica casa editrice di destra “I sette colori”. A ottant’anni da quando erano in funzione i plotoni di esecuzione che in Europa si occupavano di scrittori e poeti irrequieti, le pallottole si sono relativamente acquetate. Anche se qualche imbecille è come se ce l’avesse avesse tuttora la libidine del tempo delle pallottole, pallottole che se è per questo fioccano anche non lontano da dove noi oggi proviamo a convivere.
Quarant’anni fa, ottant’anni fa. Un intero secolo se ne è andato e ci è scappato via di gran corsa, mentre noi oggi ci arrovelliamo se davvero sì o no quell’uomo di governo italiano aveva il diritto di scendere in anticipo da un treno che correva in ritardo, problemoni grossi così. Come passa spedito il tempo. E tutto sommato c’è andata buona perché ancora vent’anni fa i ventenni italiani dell’una o dell’altra parte ideologica (“rossi” e “neri”) continuavano ad ammazzarsi per le strade di Torino o di Milano. Tre di quei ragazzi di destra li ammazzarono mentre stavano uscendo dalla sezione del Msi cui erano iscritti. Il più giovane dei tre non aveva ventanni quando la morte gli disse buongiorno. Io non trovo nulla di strano (e meno che mai di sacrilego) che i loro coetanei ne celebrino ogni anno la morte rinnovando sempre lo stesso rituale. Fossi uno della loro parte, farei certamente lo stesso.
Ma che brutta questa espressione dalla “loro parte” che ho appena usato. Esistono solo le parti che attengono alla vita e alle sue rifiuriture. Viverle, trovarle quella ragioni, meritarsele, rinnovarle, esaltarle. Le ragioni che dicono sì al vivere e a al migliorare, all’esser migliori a sé e agli altri, anche di pochino, anche di quel po’. Purché di quel pochino in meglio la società tutta migliori e ne abbia un vantaggio, e di quel vantaggio tu ne debba essere adeguatamente orgoglioso. Pochino pochino ma in meglio. Che nel nostro comune vivere ci sia un po’ più di eleganza, di intelligenza delle cose, di orgoglio intellettuale, di lealtà reciproca, di comunicazione delle parole che ci si rivolge a vicenda e guardandosi negli occhi. Un pochino pochino, stavo per dire un pizzico, purché in meglio. Un pizzico. Sì, un pizzico. Ti pare poco? A me pare un oceano. E invece siamo ancora lì, a misurarsi gli spazi dei nostri volti adatti a ragguardevoli ceffoni o manganellate. Ceffoni, ceffoni, ceffoni. Violenza, insulti, voce rauca, braccia levate nell’offesa, manganelli che si agitano rabbiosi nell’aria. Penosi quegli studenti americani che nelle loro università americane non ne vogliono sapere di accostarsi a studenti ebrei che magari ci vivevano il 7 ottobre 2023 in quegli sciagurati kibbutz israeliani così adatti a morirci in gruppi. Uomini, donne, ragazze, bambini. Purché fossero morti atroci. Purché fosse stato distrutto prima ogni particolare di quelle creature viventi che sono le case. I luoghi dove gli esseri umani vivono fianco a fianco, sorridono fianco a fianco, si tengono le mani l’un l’altro e ne traggono un reciproco calore, come quarant’anni fa avvenne a me e a Solinas.
E dire che basterebbe un nonnulla. Un placarsi, la scelta di non alzare la voce e usare gli argomenti come fossero sventagliate di mitra, come fossero delle prese al collo dell’avversario fino al torcerlo completamente. Un semplice confronto, quello sì. Un confronto, dove non è detto affatto che l’uno abbia il cento per cento di ragioni e l’altro il cento per cento di torti. Il che non accade mai nella vita, dov’è sempre un equilibrio degli uni e degli altri e semmai un faticosissimo sopravvento degli uni o degli altri. E ancora. Potevi avere ragione ieri, non ce l’hai più domani. Quando tutto è cambiato o, più spesso, interamente stravolto da come sono mutate le cose.