uffa!
Oggi è tutto un dissing, ma il vero sale del dibattito sono le sfumature
Il ritiro da parte di Giorgia Meloni della querela contro Luciano Canfora è un'occasione per riflettere sullo stato del nostro dibattito pubblico, tutto giocato sul modello della "telerissa". Se insulti e offendi vuol dire che non hai argomenti
Ho apprezzato il ritiro della querela che il capo del governo, Giorgia Meloni, aveva inizialmente sporto contro il professore Luciano Canfora, un intellettuale di sinistra che più di sinistra di così non si può. Era successo che non ricordo più se in un articolo o in un’intervista il professor Canfora avesse definito la Meloni nientemeno che “una neonazista nell’anima”: ovvero, se le parole hanno un senso, che nel profondo della sua anima lei non vedeva l’ora di acciuffare bambini ebrei e portarli a miglior vita. Più stupidaggini di così.
Mi immagino che cosa avrebbe potuto dire il professor Canfora a sua difesa in un’aula di tribunale. Che in tutto e per tutto si trattasse di semplice polemica politica, di un qualche diverbio di opinioni tra due persone che non avevano la stessa idea delle cose del mondo. Di certo sarebbe stata un’udienza di tribunale farsesca, e tanto più trattandosi di due personaggi di quella caratura, un professore universitario riconosciutissimo nella sua specialità e il capo del governo italiano. Per fortuna l’intelligente decisione della Meloni ci ha risparmiato questo obbrobrio, e come se non ce ne fossero a sufficienza nella odierna nostra vita pubblica. Discutere, duellare con le parole, polemizzare quando è il caso ciascuno fermo nelle sue convinzioni, tutto questo è salutare e indispensabile. E’ il marchio di una società liberale. Aggredire volgarmente il tuo interlocutore con la conseguenza di riempire di stupidaggini tanto le aule di tribunali quanto le prime pagine dei giornali è tutt’altra cosa.
Tra le tante parole di conio inglese che sono entrate a far parte imprescindibilmente della nostra comunicazione corrente ce n’è una che è assolutamente figlia dei tempi e come tale insostituibile. La parola dissing. Che viene dal verbo to disrespect e indica il confronto verbale e intellettuale in cui uno non si perita di aggredire e insultare insistentemente il suo interlocutore. Non hai condiviso l’intervento pubblico di uno che non la pensa come te, non ti è piaciuto un libro o un film o una trasmissione televisiva, e a proposito di televisione dove due se le stavano dando di santa ragione (Dagospia le denomina “telerisse”) eri ben felice che uno dei due interlocutori stesse cercando di spaccare il muso all’altro? Tutti casi di “dissing” che si trascinano spesso per giorni e giorni e pagine e pagine di giornali e ore e ore di tv pubblica e privata.
Beninteso può capitare a tutti di lasciarsi scappare una parola o una dizione stupidamente insultante. Durante una puntata radiofonica della “Zanzara” mi scappò un’espressione insultante (oltre che stupida) nei confronti di Fedez. A dire il vero me ne accorsi subito di che robaccia si trattasse e subito telefonai alla redazione di Dagospia chiedendo che quella parola la cassassero dal mio articolo. Purtroppo loro erano stati più veloci del vento e il mio testo era già sullo schermo. Me ne mordevo le dita. L’indomani mi telefonò, cortesissimo, l’avvocato di Fedez e non ebbe il tempo di pronunziare motto che già gli stavo dicendo che quell’aggettivo da me usato nei confronti del suo cliente faceva schifo e non vedevo l’ora di ritirarlo. Ciò che feci pubblicamente dicendo a Fedez che non avevo avuto alcuna intenzione di insultarlo o di offenderlo. Tutto al contrario, se hai bisogno di offendere o insultare qualcuno vuol dire che di argomenti buoni non ne hai altri, che ti devi aggrappare al linguaggio insultante come fa il saltatore con l’asta con il suo attrezzo, di cui si serve per andare alto in aria. E invece non è affatto così. A farti da asta e mandarti su, quando scrivi e ragioni, non sono le parole aggressive bensì le espressioni e le dizioni sfumate, il riconoscere all’avversario quello che è dell’avversario, l’interpretare a fondo il suo pensiero, il sapere che non tutto è bianco e non tutto è nero.
Lo dico perché a vent’anni ovviamente io ululavo e scalpitavo al più possibile contro chi non la pensava come me. Una volta espulsero da un’aula universitaria me e un leader studentesco fascista con cui mi stavo mitragliando verbalmente ad altissima voce. Ebbene il me stesso di oggi non ha più il benché minimo rapporto con quel ventenne ululante. Siamo tutti cresciuti, siamo tutti cambiati, il mondo di oggi è tutt’altra cosa da quello di mezzo secolo fa. Quel giovane fascista lo incontrai trent’anni dopo in un’aula cinematografica catanese dove stavano proiettando un film tratto da un libro di Vitaliano Brancati. Adesso io lo sapevo che suo padre era stato infoibato dai partigiani titini. Adesso sapevo qualcosa in più, e per giunta qualcosa di decisivo. Lo abbracciai.
Così come non capisco la vera e propria persecuzione di cui è oggetto oggi il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, al quale rimproverano una riga sì e l’altra pure che venti o trent’anni fa da giovane fascista lui si fosse tatuato sul petto qualcosa di fascistico. Il che significa semplicemente che era allora un uomo diverso da oggi. Ma chi di noi non lo è. Solo gli imbecilli non mutano mai opinione.