Una foto di scena di 'Stalingrad', primo film russo in 3D, con effetti tra il cartone e il videogioco, 10 novembre 2013

uffa!

Polvere, bombe e l'aria che manca. L'inferno di Stalingrado nelle parole di Grossman

Giampiero Mughini

Fu la battaglia delle battaglie. Lo scrittore da civile aveva seguito per mille giorni i combattimenti, li aveva assaporati ora per ora, scempio per scempio. C’era anche lui nel corpo di spedizione sovietico che entrò per primo nel campo di Treblinka

Nei mesi tra agosto e dicembre del 1942 accadeva ai bambini russi abitanti a Stalingrado e dintorni di scoppiare improvvisamente a piangere la notte. C’era che pur assonnati avevano riconosciuto il suono degli aerei tedeschi che nel numero di mille volteggiavano sopra la città russa e picchiavano incessantemente contro di essa.

Gli alti comandi tedeschi avevano esitato a lungo su quale giorno di agosto scatenare l’attacco che reputavano decisivo al fine di spezzare le reni a quella città talmente simbolica dell’universo comunista. Dopo le fulminee vittorie conseguite a partire dal giugno 1941 in cui Hitler aveva dichiarato guerra alll’Urss, quando i soldati russi erano scappati “a testa bassa” innanzi all’avanzata dei tedeschi, avanzate interrotte soltanto dall’inverno russo, non tutti i comandanti tedeschi ma Adolf Hitler e quelli a lui più vicini reputavano che entro il novembre 1942 Stalingrado sarebbe stata piegata e l’Urss definitivamente sconfitta. Quando il 25 agosto scattò il momento decisivo, i tedeschi mandarono all’assalto di Stalingrado ottanta  divisioni militarmente attrezzatissime, suffragate dalla marea d’acciaio di 500 carri armati e dei mille aerei da bombardamento di cui ho detto. Ne sarebbe nata, per intensità e durata, la più furibonda battaglia della Seconda guerra mondiale se non anche la più decisiva. Se non anche la più furibonda battaglia mai combattuta dagli uomini su questa terra.

Nei miei anni da liceale non avevo imparato nulla di nulla di questo putiferio. Finché non trovai e comprai quasi per caso un volumetto einaudiano che aveva per titolo Ultime lettere da Stalingrado ed era una cernita di lettere che i soldati tedeschi sopravvissuti mandavano a casa mentre i russi nel contrattaccare li avevano a loro volta circondati e li stavano distruggendo (qualcuno ha avanzato dubbi sulla autenticità di quelle lettere). In realtà quelle lettere non erano mai arrivate ai loro destinatari, alle famiglie dei soldati che combattevano in prima linea. Hitler le aveva fatte censurare per nascondere alla popolazione civile tedesca qual era il morale del suo esercito dopo quasi due anni di una guerra che lui aveva scatenato sicuro di vincerla nello spazio di pochi mesi.

Da allora Stalingrado e tutto quanto vi è annesso e connesso è divenuto per me un incubo, un pensiero fisso. Uno strazio dello stare e conoscere il mondo da cui non riesco ad allontanarmi ed è per questo che ve ne sto parlando. Ho letto in questi giorni uno dei  libri capitali sull’argomento, Stalingrado, il romanzo pubblicato per la prima volta a puntate su una rivista russa del 1952 a firma di uno dei più grandi scrittori russi vissuti nell’èra di Stalin, Vasilij Grossman (nato nel 1905, morto di un cancro allo stomaco nel 1964). La prima edizione italiana integrale  è  uscita nel 2022, appena tre anni dopo la prima edizione integrale russa. E anche se sulla battaglia di Stalingrado lui aveva scritto un secondo ed eccezionale libro, Vita e destino, che io però non ho mai letto ed è una delle mie più grandi pecche di lettore. Tra parentesi, Grossman da civile aveva seguito per mille giorni  i combattimenti di Stalingrado, li aveva assaporati ora per ora, scempio per scempio. C’era anche lui nel corpo di spedizione sovietico che nell’agosto 1944 entrò per primo  nel campo di Treblinka e che in un certo senso scoprì  l’esistenza dei campi nazi di distruzione antiebraica, lui stesso essendo di famiglia ebraica. Nel 2010 Grossman è stato onorato come “giusto” nel Giardino dei Giusti di Milano.

Scempio dopo scempio in quel di Stalingrado. Una ragazzetta che attraversava una strada qualsiasi ed ecco che una bomba scagliata da un aereo la colpiva in pieno e se la trascinava via. Ciascuno e in ciascun momento che poteva fungere da bersaglio di un cecchino tedesco che s’era introdotto nel centro della città. “[…] polvere, caldo, l’aria che manca, le cimici e gli altri insetti, la calca, le grida, i raid notturni, le corse nei campi, le stazioni lerce, la mancanza di cibo e di acqua, i treni troppo carichi]”. Una donna che vedeva suo marito andarsene per tornare al fronte dove la battaglia stava infuriando e non sapeva se quella era l’ultima volta che lo vedeva vivo. Due genitori che innanzi a una loro figlia pronunziano uno dopo l’altro i nomi dei loro amici di famiglia i più cari, e ciascuno di quei nomi viene seguito da un “lo hanno ammazzato” e dal racconto di come è successo.

C’erano soldati e ufficiali che giacevano feriti gravemente su un giaciglio e ci volevano 600 metri perché qualcuno potesse inviar loro qualcosa di cui rifocillarsi. Il tempo di percorrere 600 metri, e mentre tutt’attorno continuavano  a cadere  le bombe da una tonnellata, gli ultimi momenti di una vita.