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Il '68, Moro, la latitanza e poi la fuga. In memoria di Franco Piperno, un amico
Ne vennero arrestati a mucchi, di membri di Potere operaio, e tra loro Toni Negri e Oreste Scalzone. Piperno no, lui riuscì a sfuggire all’arresto. Io ero persuaso della sua personale estraneità all’agguato di via Fani, e per un paio di mesi lo ospitai
Per chi di noi italiani ha compiuto gli ottant’anni il 2025 s’è aperto con un triplice e doloroso lutto. Hanno lasciato questa terra Furio Colombo, che di anni ne aveva 94 e che nella sua vita a aveva fatto di tutto – organizzatore di cultura, dirigente editoriale, giornalista, scrittore e ne sto dimenticando; Oliviero Toscani che di anni ne aveva 82 e che da utente del linguaggio fotografico aveva inaugurato non una strada ma un vialone; il professore di Fisica Franco Piperno che di anni ne aveva 82 e la cui voce nelle aule universitarie del Sessantotto era stata fra le più seducenti. E del resto i giornali italiani hanno dato a Colombo e a Toscani il tanto che meritavano in fatto di orme lasciate n ella storia della moderna cultura italiana.
Meno s’è scritto di Piperno, il cui nome è poco familiare a chi oggi ha meno di 30/40 anni. Loro non erano nati nel momento del gran subbuglio sessantottardo in cui il giovane studioso calabrese di Fisica, di nome Piperno, primeggiava nelle contese universitarie che avevano a tema un auspicabile e imminente “potere operaio” di cui non sapevamo bene già allora cosa fosse e che cosa potesse divenire nella società italiana del tempo. Tanto più non lo sapevamo, tanto più quelle discussioni ci ipnotizzavano, tanto più se ne accendevano le aule universitarie a Padova o a Roma. Quel loro “groupuscule” aveva come nome Potere operaio e la figura più rilevante ne era Toni Negri, docente universitario a Padova.
Ad ascoltarle oggi quelle contese probabilmente l’unica via d’uscita sarebbe chiamare uno psichiatra, uno che mette la mano sulla fronte del paziente a misurarne la temperatura. Quanto a me che ero appena arrivato a Roma da Catania (gennaio 1970) – dove frequentavo tutt’altra facoltà, quella di Lingue e Letterature moderne, provavo a capire, che cosa ci fosse dietro quelle formulazioni a dir poco ossessive. Non ricordo come e dove incontrai per la prima volta Piperno. Mi rammento di una cena a casa sua e di sua moglie, Fiora Pirri Ardizzone, una casa romana la cui terrazza dava su Campo de’ Fiori. Ci vedevamo di tanto in tanto. Finché una sera non venne a casa mia una militante di Potere operaio di cui ho detto.
C’era che in Italia stava succedendo il finimondo. Il 16 marzo 1978 era stato rapito a Roma Aldo Moro, il presidente della Dc, e nell’operazione erano stati trucidati i cinque uomini della sua scorta. Il rapimento portava la firma delle Brigate Rosse, la più criminale delle organizzazioni terroristiche dell’estrema sinistra, un’organizzazione di cui nessuno sapeva nulla. Servirono a nulla i 72.460 posti di blocco operati dalla polizia nei 55 giorni che durò il sequestro di Moro fino alla sua morte, il 9 maggio. Solo che in quei 55 giorni la mossa più vistosa fu quella del magistrato siciliano Pietro Calogero, il quale ficcò in un unico sacco i nomi dei più notori militanti dell’estrema sinistra – il “cosiddetto teorema Calogero” – e di tutti loro ordinò l’arresto in quanto organizzatori e autori del rapimento. Ne vennero arrestati a mucchi e tra loro Negri e Oreste Scalzone. Piperno no, lui riuscì a sfuggire all’arresto. Ecco perché la militante romana di Potere operaio era venuta da me: mi chiedeva ch’io ospitassi e nascondessi Franco a casa mia. In quel momento io ero un giornalista di Paese Sera. Rischiavo non poco a farmi complice della latitanza di Franco, epperò ero persuaso della sua personale estraneità all’agguato di via Fani. Per un paio di mesi lo ospitai in una stanzuccia dove veniva a fargli visita una delle donne più notevoli (come persona intendo) che io abbia mai incontrato in vita mia. La sera cenavamo assieme tutti e tre, beninteso era lei a cucinare. Loro due dormivano in un letto a una piazza, i piedi di ciascuno all’altezza del volto dell’altro. Finché Franco non trovò di che fuggire in Francia. Ovviamente con il ratto di Moro lui non c’entrava. Semmai era stato fra quelli che auspicavano la necessità di una “trattativa” che salvasse la vita a Moro. Ciò di cui a tutt’oggi io resto arciconvinto.
Una mattina Franco se ne andò. Aveva trovato la via per rifugiarsi a Parigi. Dove poi lo presero e ne ebbe una condanna se non erro a un paio d’anni per cose che nulla avevano a che fare con Moro. Tornato in Italia, andò a vivere e a insegnare a Cosenza. In questi ultimi quarant’anni l’ho visto di sfuggita un paio di volte. Mai più l’ho avuto di fronte faccia a faccia. Gli volevo bene. Quando ho saputo della sua morte, ho avuto una fitta al cuore. Se ne andava un brandello della mia giovinezza.