
LaPresse
Uffa!
Gene Hackman ha raccontato quanto sia complesso il vivere e il lottare per la vita
La sua è una storia di profonda drammaticità: sua moglie di 67 anni cadde a terra, morta, e lui, 95enne, malato di Alzheimer, per una settimana continuò a vagare per casa apparentemente inconsapevole della morte della moglie. La vecchiaia, accoppiata alla malattia, è la maggiore offesa che tocchi a un essere vivente
E’ una storia la cui drammaticità è impari a qualsiasi altra io conosca. La storia di uno dei più grandi attori del cinema moderno, l’americano Gene Hackman, la cui moglie di 67 anni cade per terra morta in casa con le pillole di cui si curava disseminate per terra, e lui novantacinquenne – da tempo gravemente malato di Alzheimer – che a quanto pare per tutta una settimana continua a vagare per casa apparentemente inconsapevole della morte della moglie, e finché un infarto non lo abbatte a sua volta e mentre rinchiuso in una gabbia sta morendo di stenti il loro cane, cui più nessuno della famiglia dava di che mangiare e vivere. La vecchiaia, e meglio ancora la malattia accoppiata alla vecchiaia, è la maggiore e più oscena offesa che tocchi a un essere vivente e contro la quale non c’è difesa possibile.
C’è una foto, pubblicata in questi giorni da tutti i giornali, in cui un Hackman stravolto dalla vecchiaia si appoggia a un bastone mentre segue tenendole il braccio la moglie più giovane: quell’uomo che per decenni anni ha occupato la nostra immaginazione e suscitato la nostra ammirazione è irriconoscibile, piegato in due, l’aria di chi non ha più nulla – ma proprio nulla – da chiedere alla vita, termine che in quelle condizioni non ha più alcun significato. E’ l’ultima foto scattata a un uomo che ha fatto la storia del cinema moderno, di un uomo che mille volte ha impersonato sullo schermo un eroe laico, mille volte ci ha raccontato quanto sia complesso il vivere e il lottare per la vita. L’uomo che non si negava nulla quando c’era da combattere il male, così mi apparve al suo esordio cinematografico ne “Il braccio violento della legge”, il film di William Friedkin del 1971 che a suo tempo avevo visto ben tre volte, e tutte e tre le volte non mi riusciva di fiatare durante la proiezione. Hackman aveva l’aria di uno di cui tutto avresti detto ma non che fosse un attore cinematografico da quanto non faceva nulla da “attore”, quella sottile autoironia che gli cospargeva il volto, quelle sue labbra che si schiudevano appena a seconda di come stesse andando la vicenda del suo stare al mondo, quella sorta di impassibilità a tutto ciò che gli stava attorno e per quanto minaccioso fosse.
Dopo quel capolavoro del 1971 di cui ho detto, seguirono altri film leggendari quali “Mississippi burning” del 1988, “Gli spietati” del 1992, lo straordinario “La conversazione” del 1974 di Francis Ford Coppola che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes di quell’anno e che resta il suo film migliore. Un carriera lunga sessant’anni durante la quale Hackman vinse l’Oscar tanto come attore protagonista che da attore non protagonista e questo su cinque candidature, quattro Golden Globe, un Orso d’argento e molti altri premi. Il suo ultimo film è “Due candidati per una poltrona” del 2004. Nel 2008 annunciò il suo ritiro dallo schermo, e da quel giorno il cinema non è stato più lo stesso. Nel 1971 molti di quanti stanno leggendo non erano ancora nati e non sanno che il film allora spaccò in due il pubblico. A molti il personaggio interpretato da Hackman apparve quale un bruto privo di moralità, uno cui andava bene tutto pur di mettere sotto i criminali suoi avversari, in questo caso dei trafficanti di droga. Furono in molti a scrivere e commentare che quel personaggio era tutt’altro che educativo, era un inno a chi colpiva per primo in una mischia la più furibonda. A me non apparve minimamente così. Quel personaggio per quanto aspro fosse a me apparve da subito uno che faceva i conti con la realtà com’è, non esattamente una parata di gentiluomini che per strada ti cedono il passo. E ne scrissi così, al tempo in cui lo scrivere sui giornali aveva ancora una sua forza, ti entrava dentro, ti ci riconoscevi.