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Uffa!
I peggiori anni della nostra vita
Il libro di Michele Brambilla è un ritratto dell'Italia degli anni Settanta e Ottanta, con fatti e personaggi che hanno animato un'epoca di violenza feroce ma anche di partecipazione e passione
Nato nel 1958, direttore del quotidiano genovese Il Secolo XIX, Michele Brambilla è un figlio degli anni Settanta/Ottanta della nostra storia recente, anni che definisce “i peggiori anni della nostra vita” stando al titolo di questo suo delizioso librino appena pubblicato da Aragno. Fatti e personaggi di quegli anni lui li ha frequentati da vicino e li ha guardati negli occhi – né più né meno di come è successo a me in quegli anni –, salvo prenderne le distanze come già aveva fatto in un suo pregevole libro del 2010, L’eskimo in redazione. Dove in buona sostanza era già la considerazione che chiude il suo libro recente: “Se poi penso a quel che fu prodotto allora nella musica e nel teatro, debbo dire che fu una eccezionale stagione di talenti. Se penso alla scuola e al mondo della cultura, penso che ci fu tanta miseria e vigliaccheria; ma anche una vivacità. Se penso a come fummo giovani allora, penso a tanta violenza, ma anche a tanta partecipazione, a una passione mai più rivista negli anni del Nulla che sarebbero seguiti”. Sta a ciascuno di voi dare maggiore risalto alla tanta violenza di allora o al perfetto Nulla di oggi.
Brambilla è entrato giovanissimo nel giornalismo, a poco più di diciannove anni, al tempo in cui i giornali venivano venduti e letti. Non ricordo più se all’Europeo o a Panorama siamo stati colleghi di redazione. Indro Montanelli in quegli anni stava fondando il Giornale perché in disaccordo con un Corriere della Sera che stava prendendo fin troppo sul serio le ragioni della sinistra giovanile la più accesa. Finì che due di quei giovani, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, gli spararono alle gambe, e comunque dieci anni dopo Montanelli volle incontrarli e in un certo senso perdonarli, cosa che Brambilla approva pienamente. Per un tempo ci fu in Italia una vera e propria guerra civile tra giovani appartenenti ai due opposti poli ideologici, ciascuno dei quali non conosceva limiti alla propria ferocia: un caso su tutti l’assassinio a colpi di spranghe e di catene di biciclette di Sergio Ramelli, un militante fascista diciannovenne colpevole nientemeno che di avere scritto in un suo compito in classe che non erano fior di galantuomini i brigatisti che in una sezione del Msi avevano ucciso due missini a Padova.
A questo proposito Brambilla racconta la volta che andò a fare un’intervista a Francesco Cossiga nella sua casa di Trastevere. Eravamo appena entrati nel Duemila. Brambilla arrivò a casa Cossiga con un leggero anticipo. Al che l’ex presidente della Repubblica gli disse: “Caro Brambilla, c’è una cosa peggiore che arrivare in ritardo: arrivare in anticipo”. L’intervista durò a lungo. Cossiga disse a Brambilla che era venuto il tempo di concedere la grazia a Renato Curcio, il fondatore delle Br, e questo proprio a voler sottolineare che quella maledetta guerra civile era finita, che cominciava un’altra èra, che nessun ventenne rischiava più di essere assalito per strada a colpi di spranga. E comunque Brambilla si chiede come sia potuto accadere che una generazione abbia adottato “un’ideologia ottocentesca e già fallita in tutto il mondo come il marxismo-leninismo”.
Un altro personaggio che compare di tanto in tanto nel racconto di Brambilla, né poteva essere diversamente, è il commissario Luigi Calabresi. Di cui tutti quelli che lo hanno conosciuto e magari erano stati interrogati da lui in questura, raccontano a Brambilla che era una brava persona e che si comportava bene con quelli che stava interrogando. Com’è potuto accadere che ben ottocento intellettuali italiani abbiano firmato contro di lui appello forsennato e bugiardo? Ottocento, di cui solo quattro o cinque abbiano poi ammesso di essersi sbagliati, di avere infamato un uomo senza alcuna base di fatto. A tal proposito mi ricordo di quando Claudio Rinaldi, direttore di Panorama, mi mandò dall’avvocato della famiglia Calabresi e questo all’indomani delle rivelazioni di Leonardo Marino, il militante di Lotta continua che aveva fatto da autista nell’agguato mortale a Calabresi. Quando, e a parte l’avvocato, mi trovai di fronte i tre figli del commissario (Mario, futuro direttore di giornali, era ancora molto giovane) e la moglie Gemma Calabresi (che non aveva la benché minima e compiaciuta aria di una che cercasse vendetta) mi sentii raggelare dalla commozione.