I nostri dati e il Grande Fratello 2.0. Non è solo una questione di privacy
Il “capitalismo della sorveglianza”, ovvero ciò che guadagnano le tech companies conoscendo i nostri comportamenti, spiegato in un libro
“Secondo l’applicazione Ngram Viewer di Google, che misura la frequenza di alcune espressioni nei libri, la parola ‘sorveglianza’ – dal francese sur-veiller, ‘sorvegliare’ – è stata usata relativamente poco fino al 1960”, scrive Frank Rose sul Wall Street Journal. “A quel punto, forse a causa della Guerra fredda, la parola è stata usata più di frequente, una tendenza che continua fino a oggi. Aspettatevi un aumento di questa attitudine adesso che è uscito ‘L’epoca del capitalismo della sorveglianza’, di Shoshana Zuboff, un libro prezioso che dà nome a un problema che sta diventando critico. C’è stato un grande imbarazzo quando Facebook e Google hanno scoperto come trasformare i dati della nostra vita quotidiana in ‘prodotti predittivi’: piccoli oracoli che anticipano le nostre intenzioni e le offrono a chiunque è disposto a pagare.
Il ‘capitalismo della sorveglianza’, secondo le teorie di Zuboff, è ciò che avviene quando le aziende accedono ai dati che seminiamo nelle nostre vite digitali e li usano per scopi commerciali. I nostri dati creano ciò che lei chiama il ‘surplus comportamentale’, un effetto collaterale che sta alla base del successo di due aziende molto quotate: Alphabet (un parente di Google) e Facebook, e in una certa misura anche Amazon e Microsoft. Questa non è una novità per chiunque legga i giornali. La notizia è il disprezzo con cui queste aziende (soprattutto Facebook) trattano questa risorsa e le scuse palesemente in malafede che offrono come risposta. Zuboff, una ex professoressa di Economia a Harvard in pensione, assume il ruolo di un antropologo sociale. La sua tesi di fondo è che lo schema della sorveglianza non minaccia solo la privacy ma anche la nostra autonomia come individui e come membri di una società democratica. Tuttavia, spiega Zuboff, non dovrebbe essere così.
Lungo la strada, Zuboff evoca i pionieri dell’epoca industriale – inclusi Thomas Edison, Henry Ford, e il sociologo Emile Durkheim – per mostrare che, come loro, anche noi siamo di fronte a una situazione senza precedenti. Ciò che non cambia è la dinamica fondamentale degli esseri umani: la sete per il potere, i profitti e i successi da parte di chi ha trovato una formula vincente ed è abbastanza intelligente da averlo capito.
Tre delle persone più intelligenti e più fortunate al mondo sono Larry Page e Sergey Brin – che circa vent’anni fa ebbero un’idea brillante per fare ricerca sul web pur senza avere alcuna strategia su come monetizzarla – e Mark Zuckerberg, che ha adattato i loro successi a una piattaforma sociale come Facebook. Apple ha prosperato creando dei prodotti esclusivi e facendosi largo nel mercato musicale del 21esimo secolo, mentre Google e Facebook hanno conquistato quasi il 60 per cento del mercato statunitense attraverso tecniche di sorveglianza. A differenza degli approcci pubblicitari prevalenti tra i mass media, queste nuove piattaforme possono, almeno in teoria, raggiungere solo i consumatori che sono predisposti a comprare i loro prodotti.
Mai sottovalutare l’appeal della certezza – o della propensione all’hubris. La missione dichiarata di Google è quella di ‘organizzare l’informazione mondiale’. Un importante ingegnere di Facebook dice di volere creare una ‘mappa di tutto nel mondo’ e di come è tutto collegato. La grandiosità di queste affermazioni dovrebbe essere un segnale di allarme. Così come lo dovrebbe essere la suscettibilità dei miliardari del tech al culto della singolarità di Ray Kurzweil, che promette l’immortalità a chiunque è disposto a fondersi con la macchina.
Nel frattempo, tutti noi ci siamo abituati al nostro ruolo di spettatori passivi nel mercato prevedibile del tech. Prendete, ad esempio, i prodotti eco di Amazon oppure Alexa, l’intelligenza senza corpo che può scegliere la musica, gestire il sistema di allarme, regolare la temperatura e ascoltare tutto ciò che viene detto tra le mura di casa. Molte persone che conosco possiedono tre o quattro di questi dispositivi, per assicurarsi che Alexa sia sempre a portata di mano. Quando gli viene chiesto di spiegare perché usano Gmail o Google Maps quando sanno che Google si rivende i loro dati, loro offrono una delle seguenti tre risposte: 1) Sanno già tutto su di me; 2) Non sto facendo nulla di male, perché mi devo nascondere? 3) Nessuno si interessa a me, e non possono prestare attenzione a tutti questi dati anche se lo volessero.
Le prime due risposte suggeriscono una profonda rassegnazione. La terza esprime un fraintendimento fondamentale su come funziona la faccenda: sì, a queste aziende gli interessa di te – questo è il punto, malgrado la retorica sulla privacy – e i loro macchinari non solo riescono ad assorbire tutto di tutti, ma diventano più intelligenti se devono processare più dati.
Come in ogni scambio faustiano, i guadagni nel breve periodo sono più cospicui dei sacrifici nel lungo termine. A chi è che non piace avere un assistente digitale magico? Chi non vuole sapere la strada più breve per tornare a casa? Certo, gli accordi con l’utente sono opachi e le impostazione predefinite sono facili – ma noi cosa ci perdiamo?
In un’intervista televisiva della scorsa settimana, il primate della Chiesa ortodossa russa ha avvertito che la diffusione dei dati personali e il cattivo uso di essi potrebbero causare l’arrivo dell’Anticristo. A volte Zuboff sembra melodrammatica. La sua tesi è più forte quando riesce a raccogliere fatti rispetto a quando usa la retorica. Ad esempio, racconta che Facebook nel 2007 aveva lanciato Beacon, una funzione che condivide i dati sugli acquisti degli utenti, che è poi stata chiusa a seguito delle polemiche. Tuttavia, abbiamo molto da perdere. Il contributo maggiore di questo libro è quello di dare un nome a ciò che succede, di collocarlo in una prospettiva storica e culturale e di chiedere a noi lettori di fermarci, di pensare al futuro e a come potrebbe essere diverso da oggi”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi).
Il Foglio internazionale