Trump è un protezionista, ma sulla Cina potrebbe vincere politicamente
Scrive lo storico Niall Ferguson. “C’è del metodo nella sua follia. E i dazi sono parte della storia americana, almeno quelle vecchia”
I presidenti passano ed è improbabile che Donald Trump verrà ricordato per i suoi principi” ha scritto Niall Ferguson sul Sunday Times. “Però uno ce l’ha. In ‘Fear: Trump in the White House’, Bob Woodward scrive che Trump una volta annotò ‘il commercio fa male’, ai margini di una bozza di discorso.
Quando il suo consigliere economico Gary Cohn gli chiese come mai ne fosse convinto, Trump rispose: ‘Lo credo e basta. Ho quest’idea da trent’anni’. E’ vero. Nel 1987 Trump pubblicò una lettera aperta ‘al popolo americano’ su un’intera pagina pubblicitaria di un giornale. ‘E’ tempo di ridurre i nostri enormi deficit’, dichiarò, ‘inducendo il Giappone, e altri che possono, a pagarci il dovuto’. In un’intervista del Wall Street Journal nel 1999, Trump speculò su una guerra commerciale col Giappone. ‘Non durerà a lungo’, spiegò, perché il Giappone, se non vende a questo paese, fallisce, ok?’. Trump è sempre stato coerente, se non che, è ovvio, oggi la Cina ha rimpiazzato il Giappone come principale (anche se non unico) obiettivo della sua politica protezionista. Durante la campagna del 2016 minacciò ripetutamente di imporre un dazio del 45 per cento su tutte le importazioni cinesi. Allora, la giornalista Salena Zito osservò che ‘la stampa prende Trump alla lettera, ma non sul serio; i suoi sostenitori lo prendono sul serio, ma non alla lettera’. Sul commercio, avremmo dovuto prenderlo sul serio e alla lettera. L’anno scorso Trump impose una successione di dazi sulle importazioni, a partire dalle lavatrici e i prodotti solari e poi colpendo l’acciaio e l’alluminio. Impose dazi sulle importazioni cinesi per un valore di duecento miliardi di dollari.
Questo mese, quando le negoziazioni commerciali tra Washington e Pechino sembravano volgere al termine, Trump ha concretizzato le sue minacce di alzare i dazi dal 10 al 25 per cento. Da allora ha cominciato a estendere la tariffa del 25 per cento a quasi tutte le importazioni americane dalla Cina. Come l’anno scorso, la Cina ha reagito imponendo dazi sui prodotti americani. La litania del presidente rimane la stessa. ‘I dazi porteranno molto più benessere al nostro paese, persino più di un fenomenale accordo vecchia maniera’ ha twittato il 10 maggio. ‘Un modo semplice di evitare i dazi?’ chiese un giorno più tardi. ‘Producete i vostri beni e prodotti sul buon vecchio suolo americano. E’ molto semplice!’. E poi: ‘Guadagneremo decine di miliardi di dollari in dazi dalla Cina’. I professionisti dell’economia – e quasi chiunque abbia imparato qualcosa dall’economia negli ultimi cinquant’anni – si riserva di dissentire. Un recente articolo accademico, scritto prima dell’intensificarsi della guerra commerciale di quest’anno, calcola che ‘la piena incidenza dei dazi ricade sui consumatori domestici, con una riduzione del reddito reale americano di 1,4 miliardi al mese alla fine del 2018’. Non solo i dazi aumentano i prezzi pagati dai consumatori americani, ma a causa delle ritorsioni cinesi anche i produttori e gli agricoltori americani vengono danneggiati’.
I sondaggi mostrano un aumento dell’opinione pubblica favorevole agli accordi libero commercio, rispetto al 2016. Per cui la strategia di Trump sembra economicamente e politicamente suicida. Eppure c’è del metodo nella sua follia. Se anche i dazi fossero tanto autodistruttivi, la storia economica degli Stati Uniti pone una specie di dilemma. Sin dagli albori (ossia dalla rivolta contro il controllo britannico delle tariffe d’importazione, tra le altre cose) la repubblica americana si è appoggiata ai dazi come fonte di introiti e protezione delle proprie industrie nascenti. Anche se furono molti altri fattori a rendere l’America grande, i dazi sicuramente non fecero nulla per rallentarne la rapida crescita economica nel Diciannovesimo secolo. Nel 1872 era già l’economia più grande al mondo. Intanto, i dazi erano diventati uno strumento di politica interna con cui il nord bacchettava il sud. Più avanti, furono proprio i dazi a dividere l’est dall’ovest del paese. Gli economisti ricordano con orrore il decreto Smoot-Hawley del 1930, che alzò le tariffe d’importazione proprio mentre il pianeta entrava in recessione. Ma i nuovi tassi erano soltanto un po’ più alti di quelli già imposti nel 1922. Fu solo a partire dalle fasi più avanzate della Seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti sposarono appieno il libero commercio, e soltanto gradualmente, da lì in poi, con un grande singhiozzo negli anni Settanta, i dazi medi vennero abbassati. Per circa 150 anni, in altre parole, gli Stati Uniti sono stati una potenza protezionista. I dazi costituirono gran parte di ciò che i rappresentati del popolo dibattevano a Capitol Hill. L’epoca del libero commercio è durata esattamente la metà del tempo. Se la si fa cominciare nel 1941, con la Carta Atlantica, è finita con l’elezione di Donald Trump, 75 anni più tardi. La guerra commerciale di Trump è doppiamente politica. In primo luogo, come ho detto già in passato, è finalizzata a bloccare l’ascesa della Cina e, anche se con un’arma smussata, sta indubitabilmente causando più dolore alla Cina che agli Stati Uniti. La seconda dimensione dei dazi di Trump è, com’è sempre vero con i dazi, domestica. Certo, vi sono dei vinti. Ma stando all’ultimo censimento gli agricoltori sono soltanto l’un per cento della popolazione americana. E i principali sconfitti, lo dimostra un recente studio, sono ‘i lavoratori di province convintamente repubblicane’. Nel 2018 soltanto il 38 per cento degli americani aveva un’opinione positiva della Cina, rispetto al 44 per cento dell’anno prima. E il 58 per cento era più preoccupato dalla sua potenza economica che da quella militare.
La diffusa percezione che Donald Trump non abbia principi è sbagliata. Un principio ce l’ha: quello della protezione. Non è granché dal punto di vista economico. Ma la storia suggerisce che potrebbe essere una carta politica davvero vincente”.
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