“La Brexit è un divorzio in cui il consorte è un malato terminale”
Per alcuni populisti è più facile continuare a picconare la tenda europea dall’interno. Boris Johnson secondo Niall Ferguson
“La nostra è un’epoca di paradossi” ha scritto sul Times lo storico inglese Niall Ferguson. “Per esempio, nonostante internet abbia conferito potere a immense reti sociali facilmente accessibili, la politica britannica continua a essere dominata da un ristretto ed esclusivo circolo di conoscenti di vecchia data. La sfida per la guida del Partito conservatore deciderà chi sarà il prossimo primo ministro. Sette dei candidati iniziali sono stati studenti dell’Università di Oxford. I due candidati finali, Boris Johnson e Jeremy Hunt, sono, rispettivamente, l’ex presidente del sindacato studentesco di Oxford e l’ex presidente dell’Associazione universitaria conservatrice di Oxford. Al liceo, Johnson è andato a Eton. Hunt era prefetto a Charterhouse. Dei cinquantaquattro primi ministri successivi a Sir Robert Walpole (considerato de facto il primo premier britannico, ndt) ventisette hanno studiato a Oxford e diciannove a Eton. Se Hunt batte i pronostici e vince, sarà il secondo ex carthusiano a risiedere al Numero dieci di Downing Street (il primo fu Lord Liverpool). Johnson è considerato da alcuni il Donald Trump britannico. A parte la grande chioma e la grande massa corporea, tuttavia, non hanno nulla in comune. Nonostante sia nato in una famiglia ricca, Trump era e rimane un outsider della società, snobbato dall’Upper East Side di Manhattan. Quando annunciò di volersi candidare alla presidenza, quattro anni fa, Arianna Huffington disse che avrebbe dato copertura alla sua campagna nella sezione intrattenimento del sito dell’Hufftingon Post. Johnson era già membro dell’élite politica e sociale britannica persino prima di immatricolarsi a Oxford. Trump ha capito presto l’enorme potenziale dei social media, iscrivendosi a Twitter nel 2009. Ha 61,5 milioni di follower. Johnson ci è arrivato tardi, iscrivendosi nel 2015. Ha poco più di 614 mila follower, l’un per cento del totale di Trump, e meno di un terzo di quello del capo dei laburisti, Jeremy Corbyn.
E’ noto che Trump comunica con il linguaggio di un bambino di dieci anni. Johnson parla l’inglese aristocratico e arcaico di P. G. Wodehouse (celebre autore umoristico inglese, ndt). A fine giugno, a proposito del ‘backstop’ irlandese, ha detto alla giornalista Bbc Laura Kuenssberg: ‘Siamo stati gli autori della nostra stessa incarcerazione’. Trump avrebbe semplicemente detto: ‘Ci siamo fregati da soli’. Perdipiù, tra due settimane questo individuo che è la quintessenza dell’élite sarà incoronato primo ministro da un’altra vecchia élite. Alla scorsa elezione, con 46,8 milioni di persone registrate per votare, l’affluenza è stata del 69 per cento. Il prossimo leader britannico, però, verrà scelto da un terzo dell’1 per cento dell’elettorato: le 160 mila persone che pagano la retta annuale di 25 sterline richiesta per poter essere membro del Partito conservatore. Per gran parte del Ventesimo secolo, i partiti politici di massa erano le organizzazioni che governavano le democrazie. Nel 1953, i conservatori avevano quasi tre milioni di iscritti. Il numero di membri individuali del Partito laburista raggiunse l’apice nel 1952, con 1.015.000 iscritti. Vi erano poi più di cinque milioni di membri corporativi (perlopiù membri dei sindacati).
Oggi, come in gran parte dei paesi europei, i partiti sono praticamente scomparsi, e sia i socialdemocratici sia i cristianodemocrati ci ricordano fan club di hobby anacronistici come il collezionismo di francobolli. Il Partito conservatore è il classico caso di una gerarchia in obsolescenza: il 97 per cento degli scritti è bianco, l’86 per cento è di classe medio-alta, il 71 per cento maschio, il 54 risiede nell’Inghilterra del sud e il 44 ha più di 65 anni d’età. Ben l’84 per cento è contrario a un secondo referendum sull’appartenenza all’Unione europea e per due terzi è in favore di una Brexit senza accordo. Un ulteriore paradosso della nostra epoca: il panorama politico britannico, sotto il peso della Brexit, assomiglia sempre di più al sistema continentale europeo. L’epoca del dominio dei due partiti, nonostante un fugace ritorno nel 2017, sembra essere agli sgoccioli. Stando all’aggregatore di sondaggi Britain Elects, oggi sono quattro i partiti ad avere il sostegno di più del 15 per cento dell’elettorato. YouGov mette il Brexit Party (fondato dal vero Trump britannico, Nigel Farage, meno di sei mesi fa) al pari con i conservatori, al 22 per cento.
Ci sono simili storie di frammentazione in gran parte dei paesi Ue. Ironicamente, mentre cercano di lasciare l’Europa, i britannici stanno diventando più politicamente europei che mai. Il paradosso finale ha a che fare con la logica della Brexit stessa. A partire dagli anni Ottanta, l’euroscetticismo britannico si è fondato sulla convinzione che la Comunità economica europea in cui siamo entrati nel 1973 si stava inesorabilmente trasformando in un super stato federale. Una nuova generazione di populisti di destra (di cui il più talentuoso è Matteo Salvini, capo della Lega italiana) ha capito che è più facile rimanere dentro alla tenda europea e continuare a picconarla, piuttosto che uscirne. Presto ci saranno abbastanza governi populisti per erigere una barriera permanente all’ulteriore integrazione sospinta all’interno del Consiglio dei ministri europei. In ogni caso, quasi nessun leader settentrionale prende sul serio le proposte di riforma europea di Emmanuel Macron, il presidente francese. E’ lui, l’ultimo federalista rimasto. E così, un vecchio etoniano sta per diventare premier perché, agli occhi di un piccolo, auto-selezionato elettorato, sembra nato per il lavoro, e anche perché è disposto a prometter loro la magica Brexit in cui ancora credono. In verità, la Brexit è un difficilissimo e dispendiosissimo divorzio in cui il consorte è un malato terminale. E’ come secedere dal Sacro Romano Impero. Un giorno ci accorgeremo del colossale spreco di tempo e di energie. A proposito di reti moderne, sarebbe stato molto meglio se avessimo passato gli ultimi tre anni a emettere bitcoin”.
Il Foglio internazionale