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Fra aborti e sterilizzazioni forzate, così la Cina è diventata la “One Child Nation”

Un nuovo documentario racconta gli effetti della politica del figlio unico a Pechino. Dalla tratta di esseri umani agli abbandoni per strada

“Alcuni documentari si distinguono dagli altri per un chiara struttura di causa ed effetto – questi documentari rendono omaggio a soggetti degni, o causano dolore per mascalzoni che se lo meritano. Ma cosa dire di un film che raffigura gli orrori quasi inconcepibili di un evento nel passato? Che effetto può avere ora?”, si chiede Joe Morgenstern sul Wall Street Journal. Il documentario “One Child Nation” parla della controversa politica di controllo delle nascite messa in atto in Cina tra il 1979 e il 2015, che limitava a un’unità il numero di figli per famiglia. La vincitrice del premio Pulitzer Mei Fong ha detto che questa politica è stata messa in atto per “correggere la marea umana, cambiare i comportamenti delle persone, di fatto inserendo lo stato nel più intimo degli spazi familiari – in casa, nella camera da letto, nell’utero delle donne”. E oltre ad aver traumatizzato intere generazioni ha anche compromesso il futuro del paese.

  

   

Con milioni di scapoli in più e una popolazione che invecchia il paese dovrà confrontarsi con molti problemi tra cui un enorme deficit pensionistico e problemi di salute pubblica. Uno dei contributi più interessanti che si possono trovare dentro al film è quello di uno dei partecipanti più eloquenti, un artista dal nome Peng Wang. Lui ha usato come tema principale dei suoi lavori proprio la politica del figlio unico, in questo modo preserva la memoria nazionale di un periodo storico che è stato cancellato dagli archivi pubblici. Il film offre allo spettatore storie in prima persona come quella di Wang, ma allo stesso tempo vuole essere un esempio di giornalismo investigativo. “‘One Child Nation’ è stato diretto da Nanfu Wang e Jialing Zhang. La signora Wang è nata in Cina nel 1985, quando l’esperimento sociale cinese era in pieno svolgimento. Durante la sua infanzia cantava canzoni che celebravano le virtù delle famiglie con un solo figlio. Lei faceva parte di un coro che, a sua volta, faceva parte di una campagna nazionale che comprendeva arti popolari, opera, culture popolari, manifestazioni di massa, manifesti onnipresenti e un’incessante propaganda trasmessa in televisione (lei ha un fratello a cui è stato permesso, grazie a un’eccezione, assieme ad alcune altre famiglie contadine, di avere due figli, a condizione che fossero nati a distanza di cinque anni”, scrive Morgenstern.

 

Una volta emigrata negli Stati Uniti, diventata mamma, ha iniziato a chiedersi che cosa avesse significato quel periodo per la sua vita e per la storia del suo paese d’origine. Nelle sue visite in patria Wang ha scoperto una storia per lo più sconosciuta che ha avuto inizio per necessità, ovvero l’impossibilità per la nazione di sostenere una popolazione in crescita, ma che nel tempo ha scritto pagine di atrocità e menzogne. Il documentario non è per deboli di cuore. Le riprese e le immagini che propone sono sconvolgenti, ma mai quanto le parole di chi ha vissuto o perpetrato questa follia, che valgono un numero qualsiasi di riprese strazianti. Si apprende che la politica del figlio unico ha richiesto sterilizzazioni forzate e aborti. Ma un conto è apprendere le modalità di applicazione di questa politica malata, un altro ascoltare i dettagli strazianti raccontati in prima persona: parliamo di donne urlanti trascinate nelle cliniche, o case demolite di donne che si sono rifiutate di farsi sterilizzare. Un’ostetrica è stata responsabile di più di 50 mila tra sterilizzazioni e aborti, e racconta: “Ero il carnefice. Lo stato mi ha dato l’ordine e io l’ho eseguito. Ho ucciso quei bambini”. Ora questa ostetrica cerca di venire a patti con la propria coscienza aiutando donne con problemi di fertilità. Diversamente, un ex funzionario della pianificazione familiare, premiato con medaglie e onori di ogni genere come eroe nazionale, non si pente di ciò che ha fatto.

 

“‘Se potessi tornare indietro nel tempo’, dice alle telecamere, ‘lo rifarei ancora’. La madre del cineasta sostiene la saggezza della risposta del governo all’aumento della popolazione e alla prospettiva di una carestia diffusa. ‘Non puoi immaginare la povertà’, dice a sua figlia davanti alla telecamera. ‘Avremmo fatto ricorso al cannibalismo’. Da parte sua la signora Wang riconosce una certa ironia nell’essere passata da un paese dove l’aborto è voluto dal governo, in un paese in cui è sempre più proibito, ma rifiuta di vedere le due politiche come opposte. Secondo lei, in entrambi i casi lo stato priva di scelta le donne”, scrive Morgenstern. Il film prosegue presentando una lunga lista di conseguenze che neanche un autore apocalittico come Orwell avrebbe potuto immaginare. Viene registrato un numero ingente di bambini abbandonati, lasciati in una cesta di paglia in un luogo pubblico. Alcuni dei sopravvissuti furono coinvolti nella tratta di esseri umani. “Un uomo allegro, ora in pensione, ricorda che da piccolo vedeva morire ogni giorno per strada dai quattro ai cinque bambini”, racconta Morgenstern. “In seguito, da adulto, entrò nel business delle vendite di bambini orfani – fino a 10 mila bambini in totale. Questi bambini venivano venduti agli orfanotrofi statali che, sostiene il film, spesso falsificavano i documenti di provenienza prima di rivenderli, a un prezzo notevolmente superiore rispetto a quello per cui li avevano comprati, a genitori adottivi che vivevano all’estero”. Il film è un pugno nello stomaco, ma bisogna superare il disgusto per immergersi in una visione coinvolgente che verosimilmente ci restituisce tutta la drammaticità di una politica malata che ha avuto luogo in Cina per più di trent’anni. “Un documentario di questo genere ci permette di approfondire la nostra conoscenza di uno stato totalitario quale è stato la Cina fino a poco tempo fa”, conclude Morgenstern. “Un paese, quello cinese, dove l’inumanità di un governo centrale cinico e opprimente si è riversata sui suoi cittadini più vulnerabili”. (Traduzione di Samuele Maccolini)

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