L'internazionalismo si ritrova a un punto morto. Che fare?
Trump non è certamente un wilsoniano di vecchio stampo, ma non ci sono evidenze che sia intenzionato a sovvertire l’ordine mondiale fondato su canoni internazionalisti
“Nell’autunno di cento anni fa, andava in scena al Senato degli Stati Uniti il dibattito sull’entrata – o no – del paese nella Società delle Nazioni promossa dal presidente Woodrow Wilson. L’inquilino della Casa Bianca pensava che la Società sarebbe stata la chiave di volta della leadership americana all’interno del mondo liberale”, scrive Colin Dueck. I critici di Trump sostengono che oggi l’America sia diventata ostile nei confronti del vecchio ordine internazionalista. Ma forse quei detrattori non tengono conto della politica estera messa in atto dall’attuale presidente, che prosegue, a modo suo, una lunga tradizione diplomatica. La politica estera americana non si è mai focalizzata su istituzioni multilaterali, bensì sulla promozione della prosperità e dell’autogoverno dei cittadini americani. I liberali che sostengono l’influenza wilsoniana nell’approccio con gli altri stati non tengono in considerazione che la visione internazionalista cara al promotore della Società delle Nazioni conteneva alcuni vizi di fondo che hanno agevolato l’elezione di Trump.
L’internazionalismo si è sviluppato in tre diversi momenti storici. Il primo è quello che segue la fine della Prima guerra mondiale, e che vede la nascita della Società delle Nazioni, all’interno della quale ogni stato prometteva di proteggere l’indipendenza di ogni stato con la forza, se necessario. Questa visione non venne accettata all’inizio – il voto al senato bloccò l’entrata degli Stati Uniti nella Società – ma nel lungo termine l’ideologia di Wilson divenne egemone. Il secondo periodo è quello che segue la Seconda guerra mondiale. In quegli anni i presidenti Franklin Roosevelt e Harry Truman, sfruttando a loro favore il timore dei cittadini per la minaccia comunista sovietica, misero in atto un approccio pragmatico. Sotto la loro guida gli Stati Uniti hanno mantenuto un ampio margine di azione, bilaterale, militare ed economico.
La terza fase inizia con la fine della Guerra fredda. “Fiduciosi nella fine della storia, gli internazionalisti liberali sostenevano che una combinazione di istituzioni multilaterali, meccanismi di risoluzione dei conflitti, interventi umanitari, democratizzazione mondiale e progetti di governance globale avrebbero reso irrilevanti i tradizionali modelli di azione politica”, scrive Dueck.
Il presidente Donald Trump ha vinto le elezioni del 2016 facendo luce sugli errori dell’internazionalismo: il fallimento degli interventi militari post Guerra fredda, la mancanza di supporto degli altri paesi nell’ambito della difesa, il costo sproporzionato pagato dai cittadini per il ruolo espansivo giocato dall’America nella seconda metà del ’900. I critici dell’attuale amministrazione ritengono che Trump stia demolendo il lavoro svolto in decenni di dominio globale. In realtà Trump non ha smantellato né il sistema di alleanze né la sua presenza diretta all’estero. Inoltre ha spinto gli alleati a investire nel commercio così come nella spesa per la difesa. Insomma, Trump non è certamente un wilsoniano di vecchio stampo, ma non ci sono evidenze che sia intenzionato a sovvertire l’ordine mondiale fondato su canoni internazionalisti”.
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