La meritocrazia delle élite
Il New Statesman racconta come l’etica del lavoro ha conquistato l’alta borghesia
Un Foglio internazionale. Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, selezionate per voi da Giulio Meotti
“Lo scorso anno Emmanuel Macron ha invitato un gruppo di studenti francesi ai giardini dell’Eliseo”, scrive Anton Jäger sul New Statesmen: “Tra i partecipanti c’era un giovane disoccupato di nome Jonathan, che ha chiesto al presidente quali misure aveva preso per aiutare i senza lavoro. ‘Ho mandato curriculum e lettere di presentazione dappertutto’, ha detto Jonathan, ‘ma non ho avuto alcuna risposta. Nessuno mi vuole offrire un lavoro’. ‘Se sei abile e motivato, puoi andare a lavorare in un hotel, bar o in un’azienda edile’, ha risposto il presidente: ‘Tante attività stanno cercando personale. Basta attraversare la strada e troverai qualcosa”’.
I commenti di Macron indicano una delle domande più sconcertanti per le élite al giorno d’oggi. La borghesia contemporanea è in preda a una smania lavorativa. Venera la fatica e si vanta di orari di lavoro disumani. Un tempo le famiglie benestanti si godevano la propria ricchezza. Ora non più. Elon Musk, il fondatore di Tesla e SpaceX, va fiero delle sue 80 ore di lavoro a settimana mentre Jack Ma, il cofondatore di Alibaba e l’uomo più ricco della Cina, consiglia di lavorare 12 ore al giorno per sei giorni a settimana. Trascorrere più tempo in ufficio e meno socializzando porta all’esaurimento, come confermano molti dirigenti d’azienda. Per gran parte della storia le élite hanno pensato che il lavoro fosse qualcosa di disdicevole. In Germania la borghesia sviluppò l’idea di “Kultur” per combattere il dominio degli Junker prussiani, un gruppo di aristocratici che governavano durante la settimana e trascorrevano i fine settimana a caccia. Questo portò il sociologo americano Thorstein Veblen a coniare nel 1899 il termine “leisure class” per descrivere il gruppo di persone che si spartivano le spoglie della nuova economia corporativa senza contribuire all’attività produttiva. L’aristocrazia facilitava anche il compito di governare. I nobili non avevano bisogno di vincere le elezioni o convincere le masse a votare per loro. Gli bastava invocare il diritto divino a governare. La borghesia si differenziava perché aveva la pretesa di essere produttiva: generava profitti investendo nelle fabbriche, non affittando i terreni. Questa etica portava i borghesi a lavorare quanto i loro operai. Gli imprenditori potevano opporsi ai proprietari terrieri per ragioni politiche, ma erano profondamente affascinati dal loro stile di vita e spendevano grandi somme di denaro per la letteratura e la musica.
Oggi i politici vengono scelti attraverso le elezioni, e i legami familiari hanno molta meno importanza. Le élite contemporanee usano la meritocrazia per giustificare la loro presenza ai vertici, per farci credere che il potere di cui godono sia tutto merito loro. “La meritocrazia non ha penalizzato solo chi si trova in fondo alla scala sociale – conclude il New Statesman –. E’ stata ugualmente dannosa per le élite. Nel tentativo di trasformarsi in lavoratori, sono diventati vittime della loro favola meritocratica”.
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