Il riciclaggio di idee malsane nelle università funziona come il riciclo delle acque
Il filosofo Boghossian spiega sul Wall Street Journal come le humanities sono impazzite e sono diventate laboratori di esperimenti linguistici
“Avete sicuramente già sentito le seguenti parole: cisgender, fat shaming, heteronormativity, intersectionality, patriarchy, rape culture e whiteness”, scrive il filosofo Peter Boghossian sul Wall Street Journal: “La ragione per cui le avete già sentite è che gli accademici politicamente attivi hanno sviluppato questi concetti per gli ultimi trent’anni agevolando la loro diffusione. Solo di recente queste parole sono entrate a far parte della cultura di massa. Gli accademici trasmettono le loro idee come se fossero delle conoscenze acquisite, come se le parole descrivessero dei fatti sul mondo e sulla realtà sociale. Alcune di queste idee contengono delle verità parziali, ma non sono scientifiche. Per la maggior parte sono dei progetti ideologici. Come è successo? Come hanno fatto questi accademici a diffondere le idee oltre le aule universitarie convincendo l’opinione pubblica che potessero dare un contributo significativo al discorso pubblico? Il biologo Bret Weinstein, cacciato dall’Evergreen State College dopo una protesta di un gruppo di sinistra nel 2017, ha chiamato questo processo il ‘riciclaggio delle idee’.
Il meccanismo è analogo al riciclaggio di denaro. Ecco come funziona: innanzitutto, vari accademici sentono dei forti impulsi morali riguardo a un certo argomento. Ad esempio, percepiscono delle attitudini negative sull’obesità e non vogliono che gli obesi si sentono a disagio per la loro condizione. In altre parole, si convincono che il concetto clinico di obesità (un termine medico) sia solamente una storia che raccontiamo sulle persone grasse (un termine descrittivo). Quindi non è né vero né falso – in questo caso è una storia che esiste all’interno di una dinamica sociale che ingiustamente attribuisce autorevolezza alla conoscenza medica. I docenti che condividono questi sentimenti fondano una rivista accademica come Fat Studies – esiste davvero. Fat Studies ha la stessa struttura di ogni altro periodico specializzato: un comitato scientifico, un sistema formale per filtrare gli studi, delle edizioni speciali, un pool di ‘esperti’ autorevoli per verificare le ricerche e così via. I fondatori della rivista, i loro alleati e i collaboratori pubblicano degli articoli su Fat Studies e fanno crescere il periodico. Altri accademici con le stesse idee producono delle ricerche che vengono accettate o respinte. Le idee e gli impulsi morali entrano nel sistema e producono delle conoscenze. Voilà!
Infine, dopo che i docenti attivisti hanno firmato delle petizioni per chiedere alle biblioteche universitarie di distribuire la rivista, rendendola finanziariamente sostenibile per una grande casa editrice come Taylor & Francis, ecco che Fat Studies prende vita. Non bisogna aspettare molto per vedere una grande mole di lavoro accademico – idee, pregiudizi, opinioni e impulsi morale – che viene riciclata nel campo delle ‘conoscenze’.
I docenti hanno una risposta pronta quando gli viene posta questa obiezione: ‘L’obesità come fa a essere solo una narrazione? Tanti sintomi clinici – l’aumento del diabete di tipo 2, i fattori di rischio dimostrabili – indicano che il grasso in eccesso è un rischio per la salute. Questo non ha nulla a che fare con le ‘storie che raccontiamo a noi stessi’, con ‘le strutture sociali del potere’ ma corrisponde ai fatti sul corpo umano’. I docenti ideologizzati rispondono attraverso gli articoli nella rivista accademica Fat Studies. Ecco un esempio: ‘Verso una pedagogia del grasso: uno studio degli approcci pedagogici mirati a ostacolare il discorso sull’obesità nell’istruzione post secondaria’. Non sapendo nulla sull’argomento, e vedendo una patina di rigore accademico e scientifico, le persone assumono ragionevolmente che questi articoli siano delle fonti di informazioni autorevoli. (Lo danno per scontato perché così hanno funzionato per anni le riviste accademiche: i docenti cercano di smentire alcune teorie false anziché dargli credibilità). Questi articoli ci dicono che l’obesità non è altro che una narrazione e che esistono tante altre narrazioni – come essere sani – e non c’è ragione di privilegiare una teoria su un’altra.
Non finisce qui. Gli attivisti militanti usano degli studi simili a quelli pubblicati su Fat Studies per acquisire credibilità e ottenere delle promozioni. Dato che sono certi di restare professori a vita, creano dei nuovi corsi sulla base dei loro studi accademici. Gli studenti devono studiare queste teorie per gli esami, e il voto dipende da quanto le loro risposte si avvicinano alle ‘idee riciclate’. Negli ecosistemi accademici, i docenti militanti assumono nuovi professori che condividono le loro stesse idee e che hanno pubblicato sulle stesse riviste. A un certo punto le teorie vengono istituzionalizzate nel sistema accademico. Questo processo, che ha diffuso le idee riciclate negli ultimi trent’anni, oggi gode di un sostegno nell’accademia tale da potergli garantire un impatto culturale notevole. Gli studenti lasciano l’università pensando di sapere delle cose che in realtà non sanno. Portano queste ‘conoscenze’ sul posto di lavoro dove, nel corso degli anni, le idee riciclate e la terminologia che le accompagna diventano la norma garantendogli ancora più legittimità. E questo è il motivo per cui avete già sentito le parole con cui abbiamo iniziato: cisgender, fat shaming, heteronormativity, intersectionality, patriarchy, rape culture e whiteness. Sono state riciclate dai docenti militanti attraverso le riviste accademiche, sono state insegnate per molti anni prima di essere diffuse al mondo. Ora, almeno, non le scambierete per conoscenze acquisite”.
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