La Francia e la morsa islamista
L’ex giudice dell’antiterrorismo Trévidic racconta come, nonostante alcuni progressi, lo stato francese sia impotente di fronte al radicalismo. L’intervista su Causeur
Causeur – In ogni intervento mediatico, lei denuncia decenni di accecamento di fronte all’ideologia islamista. Da cinque anni a questa parte, la società, i politici, i media e la giustizia hanno aperto gli occhi su questa minaccia?
Marc Trévidic – Da cinque anni a questa parte, il buonismo si è assottigliato molto. Quando ho iniziato a occuparmi di antiterrorismo nel 2000, una certa magistratura e una certa stampa negavano la minaccia della radicalizzazione islamista e ritenevano che il salafismo avesse invece come effetto quello di calmare i giovani e distoglierli dalla delinquenza. Libération aveva titolato così un dossier sul Gia (Gruppo islamico armato algerino, ndr): “Vedono islamisti ovunque!”. La prima svolta che ha portato a una consapevolezza del pericolo islamista coincide con l’11 settembre 2001. Gli attentati negli Stati Uniti hanno mostrato che la radicalizzazione poteva condurre al terrorismo, nonostante questo rischio fosse già visibile dall’inizio degli anni Novanta, con la partenza delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Da quel momento, lo sviluppo di un’ideologia che avrebbe il posto del marxismo-leninismo e ci avrebbe creato gravi problemi era apparso evidente.
Negli anni Novanta, la Francia ha pagato a caro prezzo il terrorismo islamista con gli attentati commessi sul suo territorio dal Gia algerino. Dopo questa prima grande ondata terroristica, ci siamo riposati sugli allori?
“Conosco il caso della figlia di un generale dell’esercito che si è radicalizzata. Avevamo un radicalizzato in procura. Un giorno, un giudice francese potrebbe radicalizzarsi senza che ci si renda conto”
Dal 3 dicembre 1996 ai crimini di Mohammed Merah nel 2012, la Francia non ha subito nessun attentato islamista sul suo territorio, fatto che ci ha portato a coprirci gli occhi dinanzi a una certa realtà. Per anni, abbiamo lottato solamente contro il terrorismo, combattendo cioè gli effetti senza affrontarne le cause ideologiche. Considerando il terrorismo come un affare di criminalità e non un problema di società, abbiamo lasciato che a occuparsene fossero la giustizia antiterrorismo e i servizi segreti. Ma nel lungo periodo, l’aspirina dell’antiterrorismo non basta a guarire il malato. Per usare una metafora, il giorno in cui l’aspirina non farà più abbassare la febbre, il malato si renderà conto che ha una leucemia.
Questo accecamento dinanzi alla “malattia dell’islam” (Abdelwahab Meddeb) aveva come obiettivo, consciamente o inconsciamente, di preservare la pace sociale nelle nostre periferie?
Dopo l’11 settembre, eletti locali, politici e associazioni che operano nelle banlieue pensavano effettivamente che la predicazione di movimenti religiosi come il salafismo o il Tabligh potesse assicurare la pace sociale. In un primo tempo, la predicazione ha forse portato certi giovani ad abbandonare il traffico di droga e a non commettere atti di delinquenza. Me nel lungo periodo, questi movimenti hanno immerso questi giovani in un modo di vivere poco compatibile con la République.
Il problema è che questo modo di vivere coinvolge anche la funzione pubblica. Nel cuore della prefettura di Parigi, lo scorso 3 ottobre, un funzionario radicalizzato ha ucciso in nome di Daesh. E’ un caso isolato?
Purtroppo no. L’attentato alla prefettura commesso da Mickaël Harpon non mi ha sorpreso. In questi ultimi anni, l’ideologia islamista si è diffusa dappertutto. Conosco il caso della figlia di un generale dell’esercito francese che si è radicalizzata. Anche all’interno della procura antiterrorismo abbiamo avuto un’assistente radicalizzata dalla quale abbiamo dovuto separarci. Un giorno, un giudice francese potrebbe radicalizzarsi senza che ci si renda conto.
Parlando di giustizia, che cosa risponde a Thibault de Montbrial (avvocato ed esperto di sicurezza, ndr) che ha denunciato il lassismo dei magistrati, soprattutto per quanto riguarda le pene inflitte ai jihadisti che tornano dalla Siria?
Ha ragione. Nel complesso, le sentenze che hanno riguardato l’ultima ondata di jihadisti dimostrano un certo lassismo. Quelli che sono partiti per arruolarsi nello Stato islamico, a partire dalla seconda metà del 2014, sapevano perfettamente che andavano a raggiungere un gruppo terroristico che commetteva atrocità sul campo e colpiva gli interessi francesi. Eppure, i tre quarti del tempo, la giustizia francese ha trattato i reati terroristici nei tribunali correzionali, consacrati abitualmente ai reati minori! Entrare consapevolmente nelle fila di un gruppo terroristico come lo Stato islamico costituisce un crimine. A questo titolo, un jihadista deve essere giudicato davanti alla Corte d’assise.
In generale, i jihadisti non si pentono e escono di prigione fanatici come quando ci sono entrati. In queste condizioni, perché non condannarli all’ergastolo?
Nei fatti, seguiamo già questa politica, perché è molto raro che i terroristi condannati all’ergastolo escano di prigione. Georges Ibrahim Abdallah, condannato nel 1984, è ancora in carcere, così come i responsabili degli attentati del 1995. Sono usciti soltanto i membri di Action directe, perché la loro ideologia di estrema sinistra è morta. Al contrario, un terrorista resta molto pericoloso alla sua uscita dal carcere quando l’ideologia che lo ha motivato è ancora presente nella società, e sono presenti le persone pronte ad aiutarlo. E’ il caso dei jihadisti di ritorno dallo Stato islamico, che sono stati condannati a sei o sette anni di prigione in correzionale. Attualmente, ci sono circa 350 persone che sono state condannate per terrorismo a pene di quest’ordine nelle prigioni francesi.
Questi terroristi liberati nel corso degli anni vengono sorvegliati in maniera adeguata?
Non proprio. La Turchia li ha messi su un aereo senza sapere quello che hanno in mente in vista del loro ritorno in Francia. E non si saprà nulla di più quando usciranno di prigione. Perché il loro numero ci ha impedito di fare una cernita, di valutare la loro pericolosità o di sapere chi aveva intenzione di passare all’azione in Francia. Ai miei inizi da giudice antiterrorismo, procedevamo in maniera completamente differente per coloro che tornavano dal jihad in Bosnia. Non li arrestavamo sistematicamente. Li sorvegliavamo e sapevamo dunque che avevano delle brutte intenzioni. Ma erano soltanto poche decine di individui, fatto che semplificava il lavoro dell’intelligence.
Oggi, nuove ondate di jihadisti di ritorno di Daesh potrebbero abbattersi in Francia dopo aver transitato attraverso la Turchia. Devono essere giudicati in Francia?
L’inazione dello stato è dovuta alla mancanza di coraggio di fronte a una missione immensa. Lottare contro un’ideologia necessita di una mobilitazione di tutti. Non bisogna cedere su nulla
I più intelligenti hanno abbandonato lo Stato islamico prima della sua caduta. Sono partiti in Asia o altrove e un giorno o l’altro riappariranno. Sono loro che mi preoccupano più di tutti. Quanto ai membri dello Stato islamico fatti prigionieri dai curdi, rischiano di evadere in massa da un momento all’altro. La miglior soluzione è dunque che ogni paese gestisca i suoi connazionali invece di lasciare che siano i carcerieri curdi ad occuparsene. E’ da tre anni che sussiste questo problema riguardante i jihadisti francesi arrestati dai curdi, senza che nulla sia stato fatto per risolverlo. Invece di creare una corte d’assise e un sistema penitenziario adatto per isolare i jihadisti che fanno proselitismo, lo stato si dichiara impotente. E’ deplorevole.
Passiamo dai prigionieri ai futuri jihadisti che si trovano oggi in natura. In questo inizio 2020, qual è il livello di minaccia terroristica in Francia?
Per quest’anno, la minaccia più importante proviene dagli individui radicalizzati isolati. Nei prossimi due o tre anni, si aggiungerà una seconda minaccia: lo Stato islamico e al Qaeda potrebbero ristrutturarsi e preparare nuovi attentati organizzati. Per pianificare questo genere di operazione, le reti terroristiche non hanno bisogno di una base territoriale. A un responsabile dello Stato islamico in Malesia o altrove, basta qualche contatto in Europa da attivare per commettere questo tipo di operazione. Un attentato relativamente organizzato potrebbe verificarsi sul nostro territorio nel giro dei prossimi due-tre anni se Daesh o un’altra organizzazione rinascesse dalle sue ceneri.
Alcuni jihadisti membri del commando del 13 novembre 2015 si erano mimetizzati tra la massa dei migranti per raggiungere l’Europa. Nel futuro, questo scenario potrebbe ripetersi?
Nell’ipotesi di un’ondata migratoria veramente massiva e incontrollata, sì. Attualmente, l’immigrazione è abbastanza organizzata. Ad ogni modo, i quadri e i membri più strutturati dello Stato islamico usano documenti falsi o documenti autentici rubati. Li ottengono molto facilmente e passano le frontiere terrestri con grande facilità.
Lei punta il dito contro la grande responsabilità dello stato nella nostra impreparazione dinanzi alla minaccia terroristica e nella nostra passività di fronte all’islamismo. Come spiega queste mancanze? E’ difficile parlare di accecamento, visto che i nostri servizi segreti sono informati.
Come ho già sottolineato, per molto tempo, siamo riusciti a lottare efficacemente contro il terrorismo islamista perché nessun attentato islamista si è verificato sul nostro territorio tra dicembre 1996 e marzo 2012. Per tale ragione, lo stato ha ritenuto che non fosse una priorità. Al contrario, gli effettivi dei servizi di polizia specializzati in materia di terrorismo sono stati sensibilmente ridotti a partire dal 2007 per applicare la regola della sostituzione di un funzionario su due. Dopo l’esplosione della minaccia terroristica a partire dal 2013, c’è voluto del tempo prima di rimettersi in sesto, ma ciò è stato fatto. Per quanto concerne il fenomeno della radicalizzazione, l’inazione dello stato è dovuta a mio avviso alla mancanza di coraggio di fronte a una missione immensa. Lottare contro un’ideologia necessita di una mobilitazione di tutti e di mezzi molto importanti. Non bisogna cedere su nulla. Sulla scena internazionale, bisogna rompere ogni relazione con gli stati che propagano l’ideologia in questione. Sulla scena nazionale, non bisogna arretrare sui principi di laicità. E c’è bisogno di risorse per evitare ogni sorta di proselitismo in prigione e di fermezza anche sul proselitismo sui social network e internet.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale