Milan Kundera (foto LaPresse)

un foglio internazionale

Così sono diventato kunderiano

Alain Finkielkraut ha scoperto l’autore dello “Scherzo” nel 1968. E fu uno choc: “Quello è stato il passaggio da una primavera a un’altra”

Alain Finkielkraut ha scoperto Milan Kundera nel 1968, anno di pubblicazione del romanzo “Lo scherzo”, che sarà uno choc letterario per un’intera generazione. Il 1968 è stato anche l’anno del maggio parigino, ludico e rivoluzionario, e della Primavera di Praga, tragica e impregnata di scetticismo postrivoluzionario. “La mia traiettoria intellettuale ed esistenziale potrebbe riassumersi nel passaggio da una primavera all’altra”, spiega Finkielkraut. Dal lirismo manicheo allo scetticismo kunderiano. Il filosofo e accademico di Francia evoca le intuizioni profetiche dello scrittore ceco, naturalizzato francese, diventato suo amico: l’inabissamento della cultura nel tout-culturel, la perdita dell’identità europea, il regno del kitsch e dello spirito di serietà. A questa lenta derelizione, oppone l’ironia come prospettiva del romanzo, e uno spirito critico, scettico, ma mai cinico.

 

Revue des Deux Mondes – Cosa dobbiamo a Milan Kundera, e lei, personalmente, cosa gli deve?

Alain Finkielkraut – Come molti della mia generazione, ho scoperto Kundera nel settembre 1968, ossia quando è uscita la traduzione francese del suo primo romanzo: “Lo scherzo”. (…) Allora, avevo la testa farcita di slogan lirici e manichei, che Kundera sbertuccia con un’ironia pungente. Ma in quanto goscista, ero anche anticomunista. Ho dunque letto con passione questo libro, pubblicato in Francia pochi giorni dopo l’ingresso delle truppe del patto di Varsavia a Praga. Ed è nella prefazione del romanzo di Josef Skvorecky “Il Miracolo”, pubblicato dieci anni dopo, che mi è apparsa la differenza abissale tra il Maggio ’68 e la Primavera di Praga. “Il Maggio parigino fu un’esplosione di lirismo rivoluzionario, la Primavera di Praga l’esplosione di uno scetticismo postrivoluzionario. Il Maggio parigino era radicale. Ciò che per molti anni aveva preparato l’esplosione della Primavera di Praga, era una rivolta popolare dei moderati”, scrive Kundera. E insiste: “Il Maggio parigino metteva in causa ciò che chiamo la cultura europea e i suoi valori tradizionali, mentre la Primavera di Praga era una difesa appassionata della tradizione culturale nel senso più ampio e tollerante del termine, difesa del cristianesimo tanto quanto dell’arte moderna, entrambe parallelamente negate dal potere”. Potrei riassumere tutta la mia traiettoria intellettuale e esistenziale come il passaggio da una primavera a un’altra: dalla primavera lirica alla primavera scettica. Poco a poco, sono diventato kunderiano.

 

Revue des Deux Monde – Tutto ciò non è forse iniziato con un malinteso? La prefazione di Aragon, l’intellighenzia francese che voleva proiettare su Kundera l’immagine di uno scrittore antitotalitario e antistaliniano, immagine che Milan Kundera, in seguito, non ha mai smesso di sfumare, se non addirittura di contraddire.

Alain Finkielkraut – Si può, effettivamente, parlare di malinteso. Ma anche se la nostra lettura de “Lo scherzo” era superficiale, c’era una forma di ironia che ci ha segnati. Il libro, in effetti, comincia con una battuta, la cartolina che Ludvik invia a Marketa: “L’ottimismo è l’oppio del genere umano, lo Spirito sano puzza di imbecillità, viva Trotsky!”. Non è una professione di fede, è soltanto una battuta di spirito. Ma siamo in un momento di radicalità, di effervescenza rivoluzionaria, e non si scherza con la rivoluzione, ossia con il senso della storia. Kundera ci insegna, a noialtri militanti e intellettuali impegnati, la distanza da sé stessi che si chiama ironia. Non per questo è uno scrittore di romanzi politici, né solamente un pensatore antitotalitario. Ho scoperto la profondità e l’originalità del suo pensiero nel 1983, in un articolo al quale faccio spesso riferimento: “Un occidente sequestrato, o la tragedia dell’Europa centrale”. All’epoca, l’illusione comunista si era dissipata e con i dissidenti, con Claude Lefort e Cornelius Castoriadis, e in seguito con i nuovi filosofi, avevamo imparato a sostituire il paradigma comunismo-capitalismo con l’opposizione tra totalitarismo e democrazia. Noi che avevamo gridato “Élections, pièges à cons” (Elezioni, trappole per coglioni”, ndr), riabilitavamo la democrazia rappresentativa e scoprivamo nuovamente le virtù dell’economia di mercato. Kundera non rifiuta questa critica dell’illusione comunista, ma in un mondo dove regnano i concetti, reintroduce i nomi propri che indicano delle realtà singolari: l’Europa, l’occidente, la Russia. Ci mostra che la tragedia vissuta dai polacchi, dai cechi e dagli ungheresi è una questione di civiltà, che queste nazioni europee non si situano all’est, ma all’ovest, e che sono state “sequestrate” da un’altra civiltà. Per noi, la sorpresa era totale: l’occidente sequestrato è un ossimoro. L’occidente, ai nostri occhi, è la forza, la potenza, la volontà egemonica. E cosa c’entrano quei nomi propri o la parola identità? Questa parola per cui ricevo molti rimproveri da quando ho pubblicato “L’identità infelice”, non sono andato a cercarla nella letteratura di estrema destra! L’ho trovata in Kundera che mostrava che in Ungheria nel 1956, ma anche a Praga nel 1968, e in seguito in Polonia, nel 1981, le rivolte difendevano indissolubilmente la loro appartenenza nazionale e la loro appartenenza europea. In questo articolo, Kundera constata allo stesso tempo il controllo della Russia sull’Europa centrale e il progressivo eclissarsi della cultura nell’Europa non occupata. La caduta del Muro di Berlino ha messo fine all’influenza russa, ma per quanto riguarda la cultura, la diagnosi di Kundera si verifica tutti i giorni: essa si è inabissata nel tout-culturel.

 

Revue des Deux Mondes – Nel saggio “L’arte del romanzo”, Kundera scrive: “Nel Medioevo, l’unità europea poggiava sulla religione comune; nell’epoca dei tempi moderni cedette il posto alla cultura (arte, letteratura, filosofia). Oggi, la cultura cede a sua volta il posto. Ma a che cosa e a chi? Qual è l’ambito nel quale si realizzeranno dei valori supremi in grado di unire l’Europa? Le conquiste tecniche? Il mercato? La politica con l’ideale della democrazia, con il principio della tolleranza? Ma questa tolleranza, se non protegge più nessuna creazione ricca e nessun pensiero forte, non diventa vuota e inutile? L’immagine dell’identità europea si allontana nel passato. Europeo: colui che ha nostalgia dell’Europa.” Lei condivide questa definizione di europeo?

Alain Finkielkraut – “Europeo: colui cha nostalgia dell’Europa”, è una buona definizione. E aggiungerei: “Francese: colui che ha nostalgia della Francia”. La Francia, diceva Mona Ozouf, è una patria letteraria e una patria femminile; penso sia una patria postculturale, e che il femminismo dia la caccia alla femminilità in maniera spietata. Condivido la malinconia di Kundera.

 

Revue des Deux Mondes – Ha parlato con lui di questa malinconia culturale della Francia?

Alain Finkielkraut – Certo che gliene ho parlato, era molto sensibile a questo proposito. E’ un po’ sotto la sua influenza che ho scritto La Défaite de la pensée: era evidente che la cultura stava cedendo il suo posto, e volevo riflettere su questo fenomeno. Kundera non ha mai smesso di allertarmi su questo tema.

 

Revue des Deux Mondes – Secondo Kundera, la prospettiva del romanzo è l’ironia, dunque il contrario del lirismo…

Alain Finkielkraut – Ha scelto l’ironia contro il lirismo, sì. Ma anche in questo caso, bisogna andare molto più in profondità e non lasciare all’ironia l’ultima parola: non è uno scrittore di romanzi sentimentali, ma è per molti aspetti uno scrittore di romanzi a fior di pelle. In lui, la sensibilità è molto presente. Anche nell’“Insostenibile leggerezza dell’essere”, l’amore tra Tereza e Tomas fa versare lacrime, gli concede la grazia di morire assieme: non viene permesso a l’uno di sopravvivere all’altro, ed è un regalo che offre a loro Kundera. François Ricard ha insistito su questo punto: Kundera demistifica l’idillio comunista, ma in lui c’è la profonda nostalgia di un altro idillio, e l’ultimo capitolo dell’“Insostenibile leggerezza dell’essere” è idilliaco. E’ conosciuto per la sua ironia, ma questa non deve farci dimenticare la sensibilità onnipresente nella sua opera.

 

Revue des Deux Mondes – Alcuni lo hanno descritto come un cinico.

Alain Finkielkraut – E’ scettico, ma non cinico.

 

Revue des Deux Mondes – Questa ironia, questo umorismo stanno sparendo come temeva Kundera?

Alain Finkielkraut – Viviamo in una situazione paradossale. Kundera, ne “I testamenti traditi”, fa un bellissimo elogio dell’ironia e, parlando di Rabelais, si preoccupa del giorno in cui Panurgo non farà più ridere. Questo giorno sta arrivando, nel momento stesso in cui subiamo il regno degli umoristi: sono onnipresenti, alla radio e alla televisione del servizio pubblico. Siamo saturi, ma questi intrattenitori che si definiscono umoristi accompagnano in realtà ciò che ritengono essere il senso della storia, la parificazione delle condizioni, l’emancipazione, e puniscono con il manganello della risata tutti quelli che si oppongono a questa dinamica: così non rideranno della scrittura inclusiva, nonostante sia totalmente grottesca, ma degli accademici francesi, quando questi dicono che il punto mediano fa correre un rischio mortale alla lingua. Ci spiegano che “l’unica minaccia mortale all’Académie è la prostata dei suoi membri”. Ludvik, con il suo scherzo, colpiva duramente il senso della storia incarnato dal comunismo, e anche se il comunismo è morto e sepolto, l’idea del senso della storia imperversa ancora ai nostri giorni con una forza terrificante.

 

Revue des Deux Mondes – Risentimento e ideologia benpensante sono legati?

Alain Finkielkraut – Sì, sono due incarnazioni, due manifestazioni dell’egualitarismo democratico: il risentimento è “cos’ha lui meglio di me?”, e l’ideologia benpensante è “i maschi bianchi hanno tutti qualcosa da farsi perdonare”. Hanno instaurato il loro potere sull’oppressione delle minoranze e delle donne. Ed è proprio per l’accusa di sessismo che Milan Kundera e Philip Roth non hanno avuto il Nobel: l’ideologia benpensante ha colpito anche loro.

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