I cittadini dimenticati contro le élite metropolitane. La nuova lotta di classe
Michael Lind propone un nuovo contratto sociale, un trattato di pace i cui dettagli saranno diversi da paese a paese
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“Il caos della politica americana rientra in una crisi politica più ampia che ha frantumato le vecchie divisioni tra destra e sinistra in occidente”, scrive il politologo Michael Lind sul Wall Street Journal: “Su entrambe le sponde dell’Atlantico l’establishment è sotto assedio dai populisti. La dinamica è sempre la stessa: i cittadini alienati della working class bianca contestano le élite metropolitane post-nazionali. Questa è la nuova guerra di classe. Dimenticatevi la vecchia rivalità tra lavoro e capitale. Il conflitto più profondo nelle democrazie occidentali è tra i professionisti con una laurea, che rappresentano un terzo della popolazione, e la maggioranza dei cittadini che non hanno frequentato l’università. Le democrazie occidentali sono geograficamente divise tra i centri metropolitani dove lavorano professionisti e immigrati qualificati e le città satellite o i quartieri periferici dove la working class trova un lavoro e una casa a basso costo. I professionisti tendono a percorrere delle lunghe distanze per lavorare in città specializzate nel loro ambito: Silicon Valley per il tech, Londra e New York per la finanza, Los Angeles per l’intrattenimento. Ma sarebbe presuntuoso sostenere che gli individui nelle zone impoverite possano semplicemente ‘spostarsi dove ci sono le opportunità’. Perché dovrebbero trasferirsi i membri della working class? La maggior parte delle loro professioni – cameriere, badante, commesso – non richiedono una laurea universitaria e possono essere svolti quasi ovunque. La nuova lotta di classe è evidente nell’ambito politico.
Tra il 2010 e il 2018, gli americani bianchi con una laurea sono calati dal 40 al 29 per cento dell’elettorato repubblicano. I democratici hanno un grande sostegno nelle aree più istruite. La nuova lotta è qualcosa di reale, e la classe manageriale sta vincendo. Anni fa dirigenti di azienda, politici e professori universitari avevano delle diverse sottoculture. Non è più così. Quello che potremmo chiamare il ‘capitalismo politicamente corretto’ rappresenta una fusione tra le tre élite che comandano l’economia, la cultura e la politica. Assomiglia sempre di più a una casta. La nuova classe dirigente mette insieme dei valori moderatamente libertari sull’economia con una visione culturalmente progressista. Questa oligarchia costringe la working class ad adeguarsi ad alcuni valori e opinioni sul sesso, immigrazione e altri temi senza alcuna forma di dibattito. I dissidenti rischiano di essere scartati dal settore privato, processati dai giudici e censurati dai media. In passato le élite giustificavano i loro privilegi ereditari evocando la noblesse oblige, che impone degli obblighi militari ed economici ai membri della classe dominante. Ma l’élite manageriale sostiene che la propria condizione deriva solamente dal ‘merito’, ovvero dal talento individuale e dal lavoro duro. Questo crea un finto senso di superiorità tra i membri della casta, e un grande risentimento tra gli altri cittadini. La classe manageriale dell’occidente riconosce che le politiche predilette su commercio, immigrazione e stato sociale sono impopolari e possono essere minacciate dalle rivolte degli elettori. Questo è il motivo per cui hanno delegato le decisioni alle agenzie amministrative, ai tribunali e alle istituzioni transnazionali come l’Unione europea. I politici dell’establishment sostengono di non potere fare nulla perché hanno le mani legate. Votare è come inserire delle monete in un distributore automatico rotto. Quando non c’è una risposta, le persone frustrate prendono a calci il distributore.
Al contrario di quanto aveva previsto l’intellettuale James Burnham, la ‘società manageriale’ non si è verificata dopo la Seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale il potere dell’élite nell’economia, nella cultura e nella politica è stato ristretto da una serie di vincoli. I sindacati limitavano il potere dei dirigenti d’azienda. La chiesa e le organizzazioni civiche bilanciavano l’influenza culturale dei mass media. La presenza dei partiti sul territorio consentiva di rappresentare le istanze del cittadino comune limitando il potere dei politici nazionali e della burocrazia. Non più. Oggi, i sindacati sono più deboli ovunque e negli Stati Uniti si sono praticamente estinti. Culturalmente, le università di élite hanno sostituito la chiesa o la sinagoga come fonte di idee e autorità morale per un numero crescente di occidentali, tra cui molti membri della classe dirigente. I partiti oggi hanno perso il radicamento sul territorio e sono poco più che comitati elettorali in mano ai politici e ai loro finanziatori miliardari. I populisti rappresentano delle istanze legittime ma non sono la cura. La storia mostra che i demagoghi tendono a svendere il paese all’establishment costruendo sistemi di corruzione ed elargendo favori ai propri sostenitori”.
Per Lind bisogna riformare il modo in cui viene governata la società: costruendo nuove organizzazioni che rappresentino le istanze della working class. Nell’ambito politico bisogna rafforzare i parlamenti locali e nazionali e rinnovare il federalismo. Entrambi i partiti devono compiere delle rinunce per combattere il senso di alienazione della working class. I conservatori devono riconoscere il valore della concertazione e l’utilità dei sindacati. La sinistra deve rispettare la religione, ed evitare di deridere i valori tradizionali. “I dettagli del trattato di pace per terminare la nuova lotta di classe saranno diversi in ogni paese”, conclude Lind: “Ma agli elettori frustrati non servono mance elettorali o diversivi. Hanno bisogno di potere e rispetto”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)
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