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Confini e stato interventista. Il Covid-19 sarà la pietra tombale della globalizzazione?  

Dal ritorno degli esperti al conflitto tra giovani e vecchi, il politologo Ivan Krastev spiega al New Statesman le sette lezioni della pandemia

“Stiamo vivendo dei giorni strani”, scrive il politologo Ivan Krastev sul New Statesman: “Non sappiamo quando terminerà il coronavirus, e al momento possiamo solamente speculare sulle sue conseguenze economiche e politiche. Gli storici concordano che le epidemie sono degli eventi – non delle tendenze – e che mettono sotto pressione le società in cui si diffondono. Questi sforzi evidenziano delle strutture latenti che altrimenti resterebbero nascoste. Le pandemie ci consentono di svolgere delle analisi sociali, e rivelano ciò che la popolazione ha più a cuore. Le epidemie del passato state raccontate non solamente come delle crisi sanitarie ma come delle crisi morali. Alcuni gruppi sociali sono stati incolpati per l’arrivo e la diffusione della pandemia. E’ troppo presto per trarre delle conclusioni sull’impatto duraturo di una crisi globale che è appena iniziata, ma queste sono le sette lezioni che abbiamo imparato finora. La prima è che la pandemia comporterà il ritorno di uno stato interventista. Dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008, molti osservatori hanno creduto che la diffidenza nei mercati avrebbe comportato una maggiore fiducia nell’intervento pubblico. Quest’idea non è una novità; nel 1929, dopo la Grande Depressione, molte persone hanno riposto la loro fiducia nello stato. Negli anni Settanta è successo l’opposto: i cittadini erano delusi dallo stato, e sono tornati a credere nel mercato. Il paradosso del 2008 è che la sfiducia nei mercati non ha fatto crescere la domanda per l’intervento pubblico. Il coronavirus invece comporterà un ritorno dello stato. Nelle prossime settimane molte persone faranno affidamento sui sussidi pubblici per proteggersi dalla pandemia e per salvare un’economia in declino. L’efficacia dei governi oggi viene misurata in base alla loro capacità di influenzare il comportamento quotidiano dei cittadini. 

 

In secondo luogo, il coronavirus è l’ennesima dimostrazione del fascino dei confini, e aiuterà a rivalutare il ruolo degli stati nell’Unione europea. Questo ha portato alla chiusura delle frontiere tra i paesi, ognuno dei quali si prende cura dei propri connazionali. Normalmente, gli stati membri non fanno alcuna distinzione tra la nazionalità dei pazienti che usano il sistema sanitario ma, in questo caso, tenderanno a dare la precedenza ai propri cittadini. Il coronavirus rafforzerà il nazionalismo territoriale, non quello etnico. I connazionali che ritornano dalle aree contagiate sono sgraditi come lo sono gli stranieri. Lo stato chiederà ai propri cittadini di erigere dei muri non tra stati ma tra individui, dato che il rischio del contagio viene dalle persone più vicine.

 

La terza lezione del coronavirus riguarda la fiducia negli esperti. La crisi finanziaria del 2008 e la crisi dei rifugiati del 2015 hanno aumentato la diffidenza verso gli esperti. Ma le persone tornano a fidarsi delle competenze e della scienza quando le proprie vite sono a rischio. Questo ha restituito grande legittimità agli esperti che conducono la lotta contro il virus.

 

La quarta lezione è che purtroppo il coronavirus potrebbe aumentare il fascino dell’autoritarismo potenziato dal big data che è stato impiegato dal governo cinese. La risposta dei leader di Pechino all’epidemia è stata lenta ma terribilmente efficace. Molti cittadini paragonano le misure prese dal proprio paese a quelle prese dagli altri governi. E al momento la Cina è il vincitore e gli Stati Uniti sono il perdente. La crisi alimenterà ulteriormente lo scontro in atto tra Pechino e Washington.

 

La quinta lezione riguarda la gestione delle emergenze. La crisi economica, dei rifugiati, e gli attacchi terroristici ci hanno insegnato che il nostro peggiore nemico è il panico. All’inizio del coronavirus, i leader e i cittadini hanno inviato dei messaggi rassicuranti (‘restate calmi’, ‘andrà tutto bene’, ‘non esagerate’). Ora i governi devono dire ai propri cittadini di cambiare comportamento e restare a casa. Per contenere la pandemia i cittadini devono preoccuparsi, e cambiare drasticamente il loro modo di vivere. A differenza di molte altre crisi del Ventunesimo secolo, il coronavirus non viene determinato dall’ansia ma dalla paura.

 

La sesta lezione è che la pandemia avrà un impatto forte sulle dinamiche intergenerazionali. Nel dibattito sul cambiamento climatico, i giovani hanno rimproverato agli anziani di non essere interessati al futuro. Il coronavirus capovolge queste dinamiche: adesso sono gli anziani a essere messi pericolo dall’indifferenza dei giovani.

 

L’ultima lezione è che, a un certo punto, i governi dovranno scegliere tra la salute dei propri cittadini e lo stato dell’economia. Col passare del tempo, i costi di una popolazione che non lavora saranno più minacciosi del rischio di un maggiore contagio. 

 

E’ ancora presto per speculare sull’impatto politico dell’epidemia nel lungo termine. Ma è chiaro che questo è un virus dell’anti globalizzazione, dato che l’apertura dei confini verrà ritenuta responsabile della catastrofe. Storicamente, uno degli aspetti più drammatici dell’epidemia è il desidero di trovare un capro espiatorio. La crisi del coronavirus ha giustificato i timori dei no global. Gli aeroporti chiusi e l’auto isolamento degli individui appaiono la pietra tombale della globalizzazione. E’ ironico che il modo migliore per contenere la crisi di una società individualista sia quello di chiedere ai cittadini di restare a casa. Ma paradossalmente il nuovo movimento contro la globalizzazione potrebbe indebolire i politici populisti che non sono in grado di offrire una soluzione. Sarebbe un’ironia se Trump perdesse le prossime elezioni presidenziali a causa di una rivolta contro la globalizzazione di cui è stato il capofila, e se fosse sconfitto da un virus nato in Cina che porta il nome di una birra messicana.

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