Il virus e il ritorno del tragico
Senso di sicurezza, rapporto con la scienza, con i media, con gli svaghi… Questa epidemia travolge la vita contemporanea, spiega il filosofo Le Goff
Senso di sicurezza, rapporto con la scienza, con i media, con gli svaghi… Il pericolo costituito dal Covid-19 stravolge le nostre abitudini e percezioni, spiega il filosofo e sociologo Jean-Pierre Le Goff sul Figaro.
Nella nostra vita quotidiana, è emersa una pandemia da coronavirus, e l’angoscia della malattia grave e della morte si è infilata nei rapporti sociali. Sono i nostri punti di riferimento familiari e il nostro mondo che vacillano, con possibili effetti di disorientamento. In una società sviluppata del Ventunesimo secolo, si poteva credere che le epidemie che hanno segnato la storia fossero ormai dietro di noi. Abbiamo visto arrivare la pandemia senza crederci veramente. C’è voluto un po’ di tempo per riconoscere l’entità del pericolo e i suoi effetti devastanti, che non sarebbero rimasti limitati ai paesi lontani e avrebbero colpito, a vari gradi, tutte le generazioni. Il fenomeno del coronavirus ha sconquassato e reso fragili abitudini e modi di vivere che potevano sembrarci intangibili fino al suo arrivo. Queste abitudini e questi modi di vivere erano così intrinsecamente legati alla vita moderna che non vi prestavamo più attenzione. Oggi, ciò che ci sembrava “naturale” cessa di essere evidente. Ci dobbiamo confrontare con il tragico e siamo messi nuovamente davanti ai limiti della nostra condizione, alla “fragilità delle cose umane”, delle opere e delle istituzioni. Questo tempo sospeso può essere l’occasione per ricentrarci sull’essenziale, per provare a capire le sfide del nostro tempo e cominciare a trarre alcune lezioni.
Questa crisi senza precedenti è un rivelatore dello stato del mondo, della nostra democrazia e della nostra civiltà. In Francia, questa pandemia interviene in un paese frammentato, segnato dalla crisi dei “gilet gialli” e da un conflitto contro la riforma delle pensioni che sembra senza fine. Il clima di sospetto, il risentimento, e persino l’odio si sono sviluppati non solo verso una parte dei governanti, dei politici e dei giornalisti, ma anche all’interno degli stessi rapporti sociali. Nel corso degli anni, si sono moltiplicate le contestazioni vittimistiche e le denunce. Si poteva e ci si può ancora fare questa domanda: quale base comune storica e culturale mantiene l’unità e impedisce al paese di dirigersi verso una disgregazione? Ciò che ci unisce è ancora così importante? Questi interrogativi ansiosi che minano il morale di molti francesi sono oggi, ad ogni modo, messi fra parentesi o possono apparire come secondari alla luce delle questioni vitali di salute pubblica e della necessità di affrontarle. Ma la domanda rimane: siamo capaci di pensarci uniti e solidali dinanzi a questa sfida senza per questo negare le nostre differenze e le nostre contraddizioni?
La rottura introdotta da questa epidemia non stravolge soltanto le nostre abitudini e i nostri comportamenti, ma mette in discussione idee e rappresentazioni che sembravano solidamente ancorate nel nuovo spirito del tempo. In un momento in cui la vita di migliaia di persone è in gioco, l’uomo non è più considerato come una “specie fra le altre”, e si fa valere nei suoi confronti il principio di precauzione; la scienza e la tecnica non sono più viste negativamente come fonte di asservimento e devastazione della natura, bensì ritrovano una finalità umana di progresso, al contrario dei modernisti ossessivi così come di quelli che mitizzano i “bei tempi andati”. Vale lo stesso discorso per le visioni neoliberali che hanno eretto il mercato a modello di riferimento per l’insieme delle attività sociali, riducendo la sanità a un semplice bene commerciale. Queste visioni hanno reso la Francia e l’Unione europea dipendenti dall’estero nei settori strategici indispensabili alla nostra sovranità. Le prime reazioni alla pandemia hanno fatto emergere un divario tra le generazioni e l’importanza assunta da un “popolo adolescente”, che si fa coinvolgere in maniera sconsiderata nei social network, dove il complottismo e il catastrofismo planetario sono ampiamente presenti. Da più di mezzo secolo, l’adolescenza è stata socialmente valorizzata come non lo era mai stata prima. Questo periodo transitorio della vita, segnato dall’importanza dell’immaginario, dalla rivolta contro l’autorità e da atteggiamenti trasgressivi, è diventato il nuovo modo di comportamento sociale, che va oltre la sua fascia d’età e si mostra spontaneamente reticente alle esigenze e alle restrizioni della vita sociale. I divieti e i sacrifici richiesti si scontrano in un primo momento contro questa mentalità adolescenziale che sviluppa un rapporto ambivalente con lo stato e le istituzioni. Questi sono considerati come agenti di dominazione e sono sottomessi a un sospetto permanente, ma allo stesso tempo si esige da loro che rispondano al più presto ai propri bisogni e ai propri desideri, secondo la logica del cliente sovrano, sotto pena di essere accusati di ingiustizia e repressione. La crisi sanitaria non ha fatto sparire questa mentalità, ma ha riposizionato al centro l’autorità dello stato e la sua funzione di protezione e di garante dell’unità nazionale.
La preminenza dell’interesse generale, il riferimento a una “situazione di guerra” non implicano lunghi dibattiti dinanzi all’hybris adolescenziale. La demagogia dei giovani non è più vista di buon occhio, o quantomeno non sarà così per un certo periodo. Il “confinamento” che limita e inquadra gli spostamenti può apparire tanto più restrittivo in quanto la vita moderna sembra essere strutturata all’opposto dell’idea pascaliana secondo cui “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”. Il blocco della vita sociale apre una breccia nella quotidianità frenetica, spinge l’individuo a concentrarsi su se stesso, sulle sue risorse interne, frutto di un’educazione primaria, di un percorso di vita e di formazione. Gli inviti ad approfittare di questo periodo di “confinamento” per istruirsi, ritrovare il gusto della lettura, ascoltare la musica…, per quanto siano necessari, non possono comunque essere eretti a modello di attività alternativo per l’insieme della popolazione. Per quelli che hanno un lavoro, la temporalità della vita sociale non è ritmata solamente dall’alternanza tra la vita privata e l’attività lavorativa, ma da un “tempo libero” arredato con molteplici attività. In contrappunto alle pressioni e a un modello della performance veicolato nelle aziende e nella società, lo “svago” è diventato il polo di riferimento della “vita vera”, dove l’individuo si affranca dalle costrizioni della vita in società. In questo quadro, lo spirito “festivo” si è pienamente integrato alla vita sociale, svolgendo il ruolo di sfogo e di catarsi. I festival di musica e altri “eventi” di tipo fusionale che riuniscono migliaia di persone sono particolarmente frequentati dal popolo adolescente, avido di sensazioni forti e di qualche trasgressione. In queste condizioni, si capisce che il “confinamento” possa essere vissuto come un sacrificio e un vincolo particolarmente difficile da accettare, per non dire insopportabile (…).
Le democrazie moderne sono di fronte a una sfida senza precedenti che mette in luce le loro debolezze interne e allo stesso tempo invita a un sussulto e fa appello alle risorse umane che sono sempre presenti. Questa prova a cui siamo chiamati sta producendo una selezione tra i parolai, i tuttologi e quelli di cui possiamo fidarci, perché sanno di cosa parlano e si assumono le proprie responsabilità nei loro discorsi e nei loro atti. In questo caso, l’educazione primaria, l’esperienza umana e professionale, la condivisione di un senso comune sono decisivi. La politica può ritrovare la propria dignità e la propria credibilità, a patto che coloro che la incarnano assumano in modo chiaro il ruolo e l’autorità legati al loro statuto e alla loro funzione. In momenti eccezionali della storia come quello che stiamo vivendo, riemergono le élite nei vari settori di attività e “riserve di umanità” che credevamo fossero sparite. Provenienti da diverse categorie sociali e da appartenenze politiche, ideologiche e culturali composite, costituiscono le forze vive della nazione e degli esempi in cui possiamo identificarci. E’ su di loro che bisogna contare. Co confrontiamo con l’incertezza sullo sviluppo presente e futuro del contagio e sui suoi effetti nella società. Il peggio non è mai certo. Auguriamoci ad ogni modo che questa prova possa essere l’occasione di ritrovare la stima in noi stessi, la fierezza di essere francesi in seno a un’Unione europea che si costruisce bene o male attraverso le difficoltà e le contraddizioni. Nulla è ancora deciso, e nel passato, in occasione della crisi economica del 2008 così come degli attentati islamisti, abbiamo assistito a un “ottimismo buonista” secondo cui “nulla più sarà come prima”. Le fratture sociali e culturali, l’islamismo e il comunitarismo, la disoccupazione di massa e nuove forme di precarietà sociale sono ancora presenti e minano le fondamenta della nostra Repubblica. Restiamo lucidi: con questa crisi, i lupi non si trasformeranno in agnelli e i regolamenti di conti tra politici non spariranno. Ma l’amarezza impotente e l’osservazione cinica non sembrano più in voga per affrontare questa prova senza precedenti. L’epidemia ci obbliga a confrontarci al tragico della storia senza scappatoie. Al di là delle incertezze della politica, spetta ad ognuno di noi trarne le dovute lezioni.
Jean-Pierre Le Goff è autore di numerose opere rilevanti come “Mai 68, l’héritage impossible (La Découverte, 1998), “La Fin du village. Une histoire française (Gallimard, 2012), “Malais dans la démocratie” (Stock, 2016) e “La France d’hier. Récit d’un monde adolescent, des années 1950 à Mai 68” (Stock, 2018)
Il Foglio internazionale