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Hélène Carrère d'Encausse: “Ripensiamo un'Europa fondata sulla civiltà”

Sul Figaro la storica e segretaria perpetua dell’Académie française analizza la portata della crisi del coronavirus

Le Figaro – Qual è il suo pensiero su questo periodo particolare che stiamo attraversando?

Hélène Carrère d’Encausse – Prendo atto che, dinanzi a un’immensa tragedia collettiva, siamo sprofondati nella paura e nello smarrimento, e questo è naturale. Ma noto anche che consideriamo questa tragedia come un evento inedito che non poteva e non doveva verificarsi nel mondo così come lo conosciamo, e siamo dunque particolarmente impreparati di fronte a questa situazione per ragioni intellettuali e morali. Anzitutto, stiamo vivendo e osservando questa tragedia nell’immediato, senza collocarla nel tempo lungo della storia umana. Viviamo nel presente, ignoriamo la storia e ci siamo dunque dimenticati che la storia è tragica. In un certo senso abbiamo integrato il discorso di Francis Fukuyama: pensiamo che la storia sia finita, che il tempo delle sofferenze sia terminato, che abbia lasciato il posto a un presento che ognuno gestisce per conto proprie, che riflette la propria volontà e la propria aspirazione alla felicità. Ma la storia ci ha recuperato e ci insegna che le pandemie e le tragedie non hanno mai risparmiato gli uomini, e bisogna confrontare quella che stiamo vivendo alle altre per capirla e per misurarne la portata. Due esempi: la grande peste nera, che si è diffusa in tutto il mondo tra il 1348 e il 1350, ha ucciso un terzo della popolazione europea, scrive lo storico del Medioevo Froissart. Che valore attribuire ai 10 mila, 20 mila, 30 mila ‘decessi’ enumerati ogni giorno dal direttore generale della Sanità rispetto alle cifre della peste nera? Nel secolo scorso, tra il 1918 e il 1920, dopo una guerra mondiale terribilmente sanguinosa, la spagnola ha ucciso almeno 50 milioni di esseri umani. Al termine di ogni tragedia, gli uomini hanno ricominciato e imparato nuovamente a vivere, hanno saputo ricostruire il loro universo con fiducia.

 

Lei evoca un’indigenza morale. Cosa intende di preciso?

Abbiamo perso il senso della morte o meglio ci siamo sbarazzati della morte. Molte persone rileggono Proust in questo momento, ma si dovrebbe leggere anche Philippe Ariès e i suoi due libri “Essais sur la mort en Occident” e “L’Homme devant la mort”, pubblicati nel 1974 e nel 1977. Al loro interno, Ariès osserva che le società occidentali non tollerano più la morte, mentre prima l’avevano “addomesticata” integrandola alla vita. I morti restavano in mezzo ai vivi. Si moriva a casa propria, circondati dai propri cari. I cimiteri erano al centro dei villaggi e delle città. Sapevamo che la morte era il compimento del nostro destino. Nel mondo moderno, non si muore, si “parte”, si scompare. La parola stessa ‘morte’ è sparita per lasciare il posto alla parola ‘decesso’, che sostituisce una realtà carnale con una constatazione amministrativa.

 

Dinanzi a questa crisi mondiale, l’indigenza è visibile anche sul piano internazionale. L’Europa è decisamente poco presente…

L’Europa è stata ed è un progetto magnifico, un tesoro, ma è un tesoro che abbiamo maltrattato e lasciato alla deriva tra querelle e interessi particolari. L’Europa è stata vittima di semplificazioni eccessive: abbiamo opposto l’Europa delle nazioni a l’Europa sovranazionale, che avrebbe superato e abolito le nazioni. Inoltre, poiché la guerra fredda è cominciata poco dopo la nascita dell’Europa, anche l’Europa nascente si è divisa. La divisione ideologica, nonostante la fine del comunismo, è persistita nel continente europeo. L’Europa, dal 1990, si è amputata una parte di sé, è incompleta; è un’Europa politica, economica alla quale manca l’essenziale, ossia la civiltà ereditata da Atene e da Roma, quella dell’Europa cristiana, con i suoi due polmoni, la cristianità romana e la cristianità bizantina, e lo straordinario fermento culturale dal Sedicesimo al Ventesimo secolo. E’ giunto il momento di ripensare un’Europa fondata sulla civiltà, che si estenda a tutto il continente inglobando la Russia.

 

Quale ruolo può svolgere l’Académie française nella riflessione sulla civiltà europea?

Le istituzioni come l’Académie hanno attraversato il tempo, i secoli; rappresentano una memoria e dunque una capacità di riflessione. L’Académie française, nonostante il confinamento e le sue restrizioni, è in ordine di marcia. Deve dare il giusto nome alle cose, designarle in maniera precisa, rimuovere la cappa di correttismo che pesa sulle parole e dissimula le realtà, e contribuire alla riflessione. La Storia è di ritorno, l’epidemia ce lo fa sapere. Dobbiamo rendercene conto e capire il mondo in cui siamo, spiegarlo con le parole giuste. Vorrei qui ricordare la risposta di Confucio alla domanda: qual è la prima qualità di un governo? Conoscere bene il significato delle parole. Per concludere, mi lasci evocare un evento che ha preceduto la pandemia e che mi sembra allo stesso tempo un avvertimento e una fonte di speranza. In occasione dell’incendio di Notre-Dame abbiamo assistito a un sussulto collettivo. Si è manifestata una coscienza comune vedendo che la cattedrale, che incarnava una continuità, un disegno al di sopra dell’uomo, era minacciata di sparizione. Questa emozione collettiva predominante nel nostro mondo di individui ancorati nell’immediato ha mostrato che esisteva una comunità umana aperta alla trascendenza. È responsabilità di tutto coloro che ci governano e di ciascuno di noi tornare all’essenziale. Riflettere sul senso della vita.

Hélène Carrère d’Encausse, storica, dal 1990 è membro dell’Académie française, della quale svolge permanentemente le funzioni di segretaria.

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