La dolce importazione del dispotismo cinese in Francia
Una legge liberticida e quel pericolo di adottare una versione liberale e occidentale del controllo che vige a Pechino
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, a cura di Giulio Meotti
Nell’ultimo quarto di secolo, la maggior parte di noi è cresciuta con internet attraverso la sua applicazione più comune, il World Wide Web. Ormai sembra una cosa scontata tanto quanto l’elettricità, o bere acqua”, scrivono Laurent Gayard et Waldemar Brun-Theremin. Tuttavia, per l’informatico britannico Wendy Hall, questo cosa che diamo per scontata potrebbe essere messa in discussione dal confronto – il cui esito è incerto – tra diverse concezioni antagoniste: quella di un internet aperto, utopia pressoché sepolta dai monopoli tecnologici; quella di un internet saggio e regolato, il sogno di Bruxelles; quella di un internet “commerciale”, o della “neutralità del net”, che ormai è soltanto un lontano ricordo, e infine quella di un internet controllato in maniera severa, come vorrebbero i regimi più autoritari. Alcuni si preoccupano di assistere all’insorgenza di uno “splitinternet”, ossia di un internet frammentato e balkanizzato, ma il rischio più grande, in realtà, è quello di vedere internet trasformarsi in qualcosa di più uniforme e le nostre democrazie cercare di adeguarsi ai modelli di controllo e di sorveglianza digitale che esistono nei regimi autoritari. In Cina, come in occidente, la crisi del coronavirus ha soltanto accelerato delle dinamiche di evoluzione già iniziate da molto tempo. Attraverso le brecce aperte dalla commercializzazione dell’iPhone nel 2007 o dalle ricerche sull’Intelligenza artificiale di Ibm, di Google o del Facebook Artificial Intelligence Research (Fair), diretto da Yann Le Cun, vediamo delinearsi i contorni di una società di controllo che si ispira meno, in apparenza, all’autoritarismo glaciale e disumanizzato del “1984” di Orwell che al paternalismo benevolo del “dispotismo dolce” di Alexis de Tocqueville. “Non spezza le volontà, ma le indebolisce, le piega e le dirige; costringe raramente ad agire, ma si sforza continuamente di impedire l’azione; non distrugge, ostacola; non tiranneggia, infastidisce, snerva, comprime, spegne, inebetisce”, scrive un Tocqueville visionario nel 1835. Dopo la svolta impressa dalla Silicon Valley, sembra essere la Cina oggi a prendere il suo posto (…). La Cina ha costruito una variante high-tech del “dispotismo dolce” tocquevilliano, “assoluto, dettagliato, regolare, previdente e dolce”, che punta meno sulla limitazione che sull’incitamento al consumo. Quando internet ha cominciato a diffondersi in Cina negli anni Novanta, Pechino è stata tentata di scegliere la via della restrizione con il “Great Firewell” instaurato nel 1999, che doveva proteggere i cinesi dalle “influenze straniere”. Ma invece di accontentarsi di introdurre un blocco totale abbinato a un costoso sistema repressivo, il governo di Pechino ha scelto la via dell’incentivazione e proposto agli internauti cinesi delle alternative sviluppate facendo leva su un settore privato che è diventato, più che una riproduzione, un rivale efficace e innovativo delle soluzioni tecnologiche occidentali, a tal punto da poterle ormai ispirare, dopo averle copiate. Nel 2009, la società Jinhui Computer System Engineering ha sviluppato per conto della Repubblica popolare cinese il programma “Green Dam Youth Escort”, che doveva essere installato preventivamente nei computer e negli smartphones venduti in Cina, al fine di controllare e impedire l’accesso ai siti pornografici e a tutti i siti aventi un contenuto giudicato “disfemistico”, per riprendere il neologismo utilizzato da Jonathan Fildes di Bbc News nel giugno del 2009. Qualificativo interessante che, in opposizione a “eufemistico”, designa un modo degradante di rappresentare la realtà (…). Il termine calza a meraviglia anche per l’attuale legge Avia, adottata in via definitiva dall’Assemblea nazionale francese lo scorso 13 maggio, legge che, nel suo preambolo, afferma di voler combattere gli “haters” e di lottare contro “il rifiuto e l’aggressione di una persona” che abbia “rigurgiti che ricordano le ore più buie della nostra storia”. “Dietro la sintassi zoppicante, si nasconde un’ideologizzazione del principio di precauzione che, esteso al linguaggio, contiene delle potenzialità distopiche e ‘disfemistiche’ inquietanti. (…). La situazione inedita creata dalla pandemia da Covid-19 potrebbe condurre i paesi occidentali ad adeguarsi ancor di più alle abitudini cinesi. Il principio di precauzione sanitario giustifica l’instaurazione di un tracciamento digitale ambizioso con l’applicazione ‘StopCovid’, difesa dal governo all’Assemblea nazionale il 27 maggio 2020 (…). In nome del principio di precauzione, il grande rischio è che si installi una variante liberale di ciò che si pratica già in Cina, dove molteplici applicazioni e una declinazione di algoritmi permettono di controllare lo stato di salute dei cittadini, di determinare l’accesso ad alcuni perimetri in funzione della misurazione della temperatura eseguita da una macchina o da un telefono o di decidere la quarantena di un individuo”.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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