Qui è in gioco la libertà d'opinione
Da Charlie a Mila. “Bisogna mettere fine allo statuto di eccezionalità riservato a una religione”
Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio Internazionale: spunti e segnalazioni dalla stampa estera a cura di Giulio Meotti
“L’affaire Charlie (Charlie Hebdo, la rivista satirica vittima degli attentati islamisti del 7 gennaio 2015, ndr) e l’affaire Mila (dal nome della studentessa francese che da quando ha pubblicato un video su Instagram in cui ha criticato in maniera virulenta l’islam, a inizio 2020, è costretta a vivere sotto scorta, ndr) sono due momenti cruciali della nostra storia che illustrano due pericoli a cui non siamo sfuggiti”. Due rotture di paradigma nella nostra concezione e nella nostra pratica della libertà d’espressione, scrive Fatiha Agag-Boudjahlat sulla Revue des deux mondes.
“La libertà d’espressione significa sapere quali sono le domande che si possono fare e quelle che non si possono fare”: una dichiarazione agghiacciante
Con una ministra della Giustizia (Nicole Belloubet, Guardasigilli fino a inizio luglio, ndr) guardiana delle nostre libertà – continua – che deve ripensarci più di una volta per convenire che non esiste il reato di blasfemia nel diritto francese. Lei che aveva osato dire che “gli insulti violavano la libertà di coscienza”. O deboli credenti! O fragile fede che lo stato e i media devono proteggere. Le convinzioni religiose o politiche, le battaglie militanti e le idee non sono più considerate come il frutto di una riflessione e di una decisione personale, ma come una vocazione, un prolungamento dell’identità epidermica ed etnica della persona. Deridere, criticare o mettere in discussione queste idee viene percepito come un’offesa, un’aggressione contro la persona stessa. Stabilendo in questo modo una censura tanto più efficace proprio perché è subappaltata a ogni individuo.
E così succede che lo scrittore Édouard Louis, che ha abbandonato il suo patronimico (è nato Eddy Bellegueule; il suo primo romanzo si chiama “Il caso Eddy Bellegueule”, uscito in Italia per le edizioni Bompiani, ndr), il suo quartiere, la sua famiglia, si permetta di pronunciare queste parole in una trasmissione televisiva: “La libertà d’espressione non significa che si può dire tutto ciò che si vuole. Significa sapere quali sono le domande che si possono fare e le domande che non si possono fare. Ci sono domande che non sono domande, ma insulti”.
Queste dichiarazioni e la scarsa reazione che hanno suscitato sono agghiaccianti. Ogni persona deve farsi assistere da sensitive readers/talkers, incaricati di censurare e di decidere ciò che è accettabile e ciò che non lo è come domanda da fare. I genitori di Édouard Louis non si sono sentiti insultati dai suoi libri? Dietro la libertà d’espressione, è la libertà d’opinione a essere minacciata. L’offeso decide naturalmente ciò che rientra nel campo dell’offesa. Con questo potere esorbitante, l’offesa diventa un trauma ed esige una riparazione. Nel suo appassionante articolo “Une anthrophologie des polémique à enjeux religieux: le cas des affaires de blasphème”, l’etnologa Jeanne Favret-Saada spiga che la blasfemia, “peccato di lingua”, punta a instaurare “attraverso il pensiero e l’azione una sfera di divieti”.
Gli offesi pretendono di fissare i limiti di ciò che sono pronti ad accettare, affermando che si tratta di limiti dell’accettabile in generale, di limiti del rispetto umano, facendo della censura e di un reato religioso l’acme dei diritti umani. Jeanne Favret-Saada ha prima di tutto analizzato le reazioni violente che hanno fatto seguito all’uscita dell’adattamento cinematografico de “La Religieuse” di Diderot realizzato da Jacques Rivette, nel 1965, e quelle che hanno circondato nel 1988 “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese. La Favret-Saada analizza anche il caso dei “Versetti satanici” di Salman Rushdie, o la malnominata affaire delle caricature danesi di Maometto. E fa emergere delle caratteristiche comuni, tra cui l’applicazione impropria dei diritti dell’uomo per giustificare una restrizione della libertà d’espressione: “Poiché in Francia non c’era ancora una legge sulla blasfemia, invocavano i loro sentimenti religiosi feriti, al fine di convertire in reato di razzismo o di discriminazione ciò che era, ai loro occhi, una blasfemia, e di chiedere, in sostanza, una censura in nome dei diritti dell’uomo”.
È la stessa dinamica in atto dopo l’incendio della redazione di Charlie Hebdo, poi dell’assassinio dei giornalisti nei loro nuovi uffici, e infine con l’affaire Mila. Tuttavia, non ci aspettavamo che certi politici e i membri di alcune associazioni mostrassero una tale deferenza nel difendere un culto che conta più di un miliardo di fedeli e che è maltrattato e ferito da determinate parole, al punto che si sentono obbligati di rispondere con le minacce e il sangue versato. Al massimo, abbiamo sentito un “sì, ma”, con il secondo termine ad annullare il primo. Ci sono voluti trecento morti per far sì che i politici osassero utilizzare il termine islamismo e stabilire un nesso tra questa metastasi dell’islam e il jihadismo. Quando faranno un collegamento tra la radicalità religiosa e legittimata come semplice ortodossia e il terrorismo?
La radicalità rinchiude i credenti in un meccanismo di escalation. Diderot ne spiegava la logica in una lettera indirizzata a Sophie Volland del 1765: “Credere in un Dio crea e può creare quasi altrettanti fanatici che credenti. Ovunque si creda nell’esistenza di un Dio, esiste anche un culto; ovunque ci sia un culto, l’ordine naturale dei doveri morali è rovesciato, e la morale corrotta. Prima o poi, arriva un momento in cui la stessa regola che impediva il furto di una moneta giustifica lo sgozzamento di centomila uomini”. O Voltaire, nell’articolo che ha consacrato nell’“Encyclopédie” all’“Infame”, il fanatismo religioso che agita quelli che lui chiama i convulsionari: “Le leggi sono ancora troppo impotenti dinanzi a questi scatti d’ira. Queste persone sono convinte che il santo spirito che li pervade sia superiore alle leggi e che il loro entusiasmo sia l’unica legge che devono rispettare. Cosa rispondere a un uomo che dice di preferire l’obbedienza a Dio piuttosto che agli uomini e che, per questa ragione, è convinto di meritare il cielo se vi sgozza?”.
Per quanto riguarda l’islam, i media e le associazioni non fanno altro che valorizzare la corrente più settaria come l’unico islam autentico
Cosa rispondere in effetti quando sono le stesse autorità politiche ad affermare che l’islam è un culto a sé stante, che bisogna tenere conto delle sue esigenze, tra cui quella della deferenza assoluta, anche da parte di coloro che non hanno abbracciato questo culto? Non è la religione a essere intrinsecamente una religione di pace e d’amore, come ripete il ministro dell’Interno (Gérald Darmanin, nominato a luglio, ndr). Non c’è una religione di pace e di amore. Sono i credenti che decidono di fare la selezione tra ciò che vi è di buono e ciò che non lo è, a restare nel campo della fede e non del fanatismo. Per quanto riguarda l’islam, invece, i media e le associazioni non fanno altro che valorizzare la corrente più settaria come l’unico islam autentico. Ce lo aspettavamo dagli islamisti e dai militanti identitari. Lo scopriamo attraverso i politici e i giornalisti non musulmani che offrono una descrizione di ciò che è un musulmano autentico: ortodosso, visibile, appariscente, comunitarista, ciò che Fethi Benslama denunciava come il giogo del “‘supermusulmano sotto cui un musulmano è portato a esasperare il suo essere musulmano attraverso la rappresentazione di un musulmano che deve essere ancora più musulmano”.
Escalation tra i credenti, escalation tra le correnti per il controllo dei credenti, come spiega ancora Jeanne Favret-Saada: “Prendendosela con gli artisti empi, ciascuna delle cappelle devote vuole dimostrare alla massa dei fedeli la superiorità del suo zelo religioso (…) Si può considerare che qualsiasi conflitto sulla libertà d’espressione artistica che metta le consorterie devote contro dei non devoti e dei non credenti presupponga una concorrenza preliminare tra i gruppi devoti per conquistare l’adesione della massa dei fedeli”. (…) Islam santificato, musulmani diventati dei cuccioli di foca i cui sentimenti vanno protetti perché loro credono per davvero e non si può pretendere da loro ciò che si è preteso dai cattolici.
Wassyla Tamzali (scrittrice e femminista algerina, ndr) fa emergere attraverso due questioni la vastità della nostra ipocrisia: “Come, e dove, possiamo trovare il diritto di essere degli uomini e delle donne libere se non nella resistenza alla nostra cultura, alle nostre tradizioni religiose quando sono contrarie a questi principi? A cosa loro stessi hanno strappato questi diritti, se non alle loro chiese, alla loro religione, alla loro cultura, alle loro tradizioni?”. Il “sì, ma” per Charlie. Il “sì, ma” per Mila. Il ma annulla il sì. Il no assoluto a Mila è la deferenza nei confronti di militanti religiosi che incoraggiano soltanto il fanatismo. Non esiste fanatismo senza ortodossia. Bisogna seguire Romain Gary quando scriveva ne L’Affaire homme che “la democrazia è il diritto di risputare”. In questo testo, Gary sviluppa un’etica della responsabilità: “Prendete una verità, alzatela prudentemente ad altezza d’uomo, osservate chi colpisce, chi uccide, ciò che risparmia, ciò che rigetta, annusatela a lungo, sentite se non odora di cadavere, gustatela conservandola per un po’ sulla lingua, ma siate sempre pronti a risputarla fuori immediatamente”. Bisogna mettere fine a questo statuto di eccezionalità riservato a una religione. Bisogna mettere fine a questa deferenza performativa che prova ai musulmani che sono effettivamente diversi e che è il segno della superiorità delle loro convinzioni. Affermiamo con Gary che anche in materia religiosa, anche per l’islam, “tutti i sistemi devono assicurarsi contro l’errore e, qualunque sia il loro contenuto di verità, hanno tutti torto in senso assoluto. Ciò comporta per qualsiasi sistema ideologico il rispetto di un margine che deve essere un luogo di asilo in cui l’uomo potrà rifugiarsi al riparo dagli scontri sanguinosi dell’errore e della verità”. Il #JesuisCharlie e il #JesuisMila rappresentano questo asilo, il nostro riparo. Il “sì, ma” è un diritto a uccidere dissimulato.
(Traduzione di Mauro Zanon)
*Fatiha Agag-Boudjahlat è professoressa, cofondatrice del movimento Viv(r)e la République. Ha pubblicato “Le Grand détournement. Féminisme, tolérance, culture, racisme” (Éditions du Cerf, 2017)
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