(foto LaPresse)

La scrittura è un piacere fisico

Marco Archetti

Perché nessuno ne parla? Perché nelle interviste imperano scontentocrazia, crepuscolume, posa snervata? È il lettore che esige questo genere di dolorismo

Mai uno che affermi a testa alta: “Io mi diverto come un pazzo, a scrivere”. E che poi aggiunga, senza nascondersi: “Mi diverto addirittura a riscrivere”. Mai uno che confessi che gode come un matto perfino a leggere. Che va in beatitudine quando pesca storie dal cilindro frusto delle cose, orecchiando sgangherate allocuzioni da bar, sbirciando il passo di una donna o ricordando, in gloriosa trasumanazione da Prosecco, un verso cubitale di Edgar Lee Masters. Mai nessuno che racconti la gioia metafisica eppure così fragrante, fisica, demiurgica epperò artigianale, con cui lo si concepisce, lo si scrive e lo si tornisce, un romanzo. Mai uno che lasci trapelare l’esultanza del cervello, delle trippe e della carne unanime, che coglie quando – dopo adeguata battaglia – si ottiene una pagina che gira come una giostra. Mai nessuno che, alla spaventosa domanda “si soffre, a scrivere?”, opponga un sorriso e risponda che sì, capita, può anche darsi che si smoccoli, che si levino i pugni in aria e in aria si agiti financo la durlindana di un’imprecazione brancaleonesca, ma in fondo è giusto e bellissimo così, perché poi, a grana risolta (e si risolvono sempre, questo tipo di grane) ci si sente levitare verso più ariosi, ma che dico ariosi? aerostatici livelli di estasi.

 

Così, io mi chiedo spesso perché. Perché nelle interviste imperano invece questa scontentocrazia, questo crepuscolume, questa posa snervata? E’ il lettore che esige questo genere di dolorismo e di spleen tipici del Facitore che, esausto perché ha compreso l’abisso, si rimbozzola nell’amaca-utero toniservilliana, oppure è il Facitore che, esasperando in trance fotogenica le proprie posture, stimola nel lettore il godimento di saperlo munto causa rilascio di prosa ineguagliabile? Mistero. Come tutti i misteri, vorrei godermelo. Godermi le sue palpitanti, ambigue penombre – se ce ne fossero. Siccome temo non ce ne siano, dichiariamo caso chiuso e torniamo a noi. Perché non è di buio che volevo parlare qui, bensì di luce, di gioia e di scintillanti lussurie. Perché scrivere (casomai qualcuno pensasse a una crocifissione) è vita, canto, scommessa, tuffo. Scrivere è scalare un pentagramma per gettarsi nel vuoto dalla sua riga più alta e poi planare, atterrare e balzare qua e là, equestre e preciso, di tono in tono, sui rami dei punti di vista secondo umore e capacità. Scrivere è la gioia di pensare con la mano e non solo col cervello, è atto fisico che strema e rigenera come l’amore fatto con generosità e impeto – alla boia d’un Giuda, per citare i poeti. Scrivere è sorprendersi di una strada intrapresa perché non era quella prevista e proprio per questo fidarsi, abbandonare le mappe e imboccare una deviazione senza sapere se ci ritroverà in un paese disabitato o in mutande in mezzo a una piazza. Scrivere è saper leggere il mondo intero in una crosta di formaggio, dare forma all’informe in quel modo e non in un altro perché, una volta, un’indimenticabile frase di Bernard Malamud ti ha insegnato a scrutare le filigrana del mondo con quell’angolatura che poi ti sarebbe appartenuta per sempre, perché scrivere è essere sempre in ottima compagnia. Scrivere è misurarsi e misurare, essere superficiali e definitivi, mezzi vuoti e mezzi pieni ma sempre pronti al balzo e all’invenzione. Scrivere e leggere sono, da sempre, per me, le due facce della medesima e multiforme joie de vivre. Eppure c’è in giro brutta gente che si permette di parlare di libri in una lingua morta – io, davvero, non so.