I moderni e l'ambiguità del riposo eterno
Imparare che i Grandi Eventi e le grandi sofferenze non fermano la vita quotidiana può essere tremendo ma anche liberatorio
"Anche il martirio più tremendo / Dovrà comunque compiersi in un angolo": così, nella traduzione di Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica, suona il verso cruciale di “Musée des Beaux Arts”, la famosa lirica di Auden che ritroviamo tra le “Poesie scelte” da Edward Mendelson e proposte ora da Adelphi. La lirica s’ispira alla “Caduta di Icaro” di Bruegel, dove il figlio di Dedalo, anziché essere al centro della scena, si riduce a due gambe scalcianti sul margine, mentre il corpo è già sparito in mare. In primo piano vediamo un aratore, e dietro un pastore, un pescatore, navi che salpano: mentre il mito annaspa ridicolo, è la quotidianità a mostrarsi impassibile, regale.
Siamo nel sinistro 1938, e il trentenne Auden, vicino ai comunisti, viaggia da una guerra all’altra. Eppure qui alla Storia, dea caduca dei prometeici uomini moderni, oppone uno spazio indifferente e immobile. “Tutto si distoglie / Senza scomporsi dal disastro”: imparare che i Grandi Eventi e le grandi sofferenze non fermano la vita quotidiana può essere tremendo ma anche liberatorio. Il poeta alterna il commento e la ekphrasis. Questa tecnica ha una lunga storia, dall’omerico scudo di Achille alle gallerie di emblemi dei versificatori barocchi. Ma è nella letteratura moderna che la traduzione verbale di un’immagine diventa un espediente particolarmente efficace per esprimere una visione del mondo, e magari la nostalgia per ciò che il frenetico mondo borghese non è più. Si pensi all’“Ode su un’urna greca”: “Amante, giammai, giammai tu puoi baciare”, dice Keats alle figure del fregio; e però in cambio “tu per sempre amerai, ed ella sarà bella!”.
Si può abitare nella vera, eterna bellezza solo a patto di non vivere, come capiranno il protagonista dell’“Airone” di Bassani e il suo autore, che avvicina gli uomini ancora palpitanti del ’900 agli animali imbalsamati e agli spettri di una necropoli etrusca. In altro modo, il contrasto e la complicità tra immagini e corpi corruttibili è indagato dal Leopardi sepolcrale e dal Baudelaire che “copia” Delacroix o Christophe. Ma non a caso alcuni episodi importanti coinvolgono icone premoderne: in Italia, ad esempio, Fortini cala le sue allegorie in Poussin e Luzi mima Simone Martini (mentre da Longhi, principe dell’ekphrasis, discende un filone che va da Pasolini a Bassani a Bertolucci). Più che al Rinascimento titanico o umanistico dei romantici si guarda al gotico, al classicismo, o all’arte misteriosa e miniata dei fiamminghi: poco prima degli esordi audeniani, Proust fa morire Bergotte davanti a Vermeer. E a fine ’900 Raboni, traduttore della “Recherche”, costruisce la poesia “Le nozze” su due quadri: i “Coniugi Arnolfini”, e una donna al bagno forse copiata dallo stesso Van Eyck. Col suo passo morbido, funereo, proietta un sangue immaginario nei dipinti reali: chiude la finestra dei “Coniugi”, nella “mano di cera” dello sposo vede il gesto di chi prepara “la posizione / futura degli scheletri”, e disegna un serpente sui capezzoli della femmina nuda. All’inizio il poeta s’identifica con uno dei testimoni “fungibili” nello specchio, un Icaro svanente ai confini della vita. Alla fine, la donna è “fuori di mente nell’attesa / di ciò che è stato”: si protende estatica sul passato, fissa le spoglie di un avvenire remoto. Raboni aspira a un mondo “senza futuro”, a un aldilà privo dell’ansia dell’età audeniana (e nostra). E’ forse questo riposo eterno e ambiguo ciò che molti moderni hanno cercato negli “Antichi Maestri”.
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