Pasolini e Pavese, ombre ingombranti
La loro poesia, insieme impudicamente incollata al vissuto e irrimediabilmente manieristica, è una poesia di “adolescenti”: ragazzi che sfidano la realtà adulta
In questi mesi sto scrivendo con altri una storia della letteratura italiana per le scuole superiori. Arrivati al pieno Novecento, ci siamo chiesti che spazio dare a due ombre ingombranti: Pavese e Pasolini. Nella percezione diffusa appartengono sempre meno a un canone in senso stretto estetico, e sempre più somigliano a miti con cui può subito identificarsi chi si affaccia sul mondo e magari inizia a scrivere; ma restano comunque personaggi emblematici della nostra cultura. Anche l’autore di “La luna e i falò”, malgrado la polvere, non si lascia cancellare come un Quasimodo. Pasolini lo stimava poco; eppure il narratore-poeta Pavese ha molti tratti in comune col poeta-narratore delle “Ceneri”. In periodi diversi, tutti e due oscillano tra la fascinazione per il mito, per l’immobilità contadina, e l’adesione alla ragione storicista – tra l’elegia privata e l’andata al popolo. L’America, e le campagne piemontesi americanizzate, sono a volte per Pavese ciò che per Pasolini è il sottoproletariato d’Italia e del pianeta. In entrambi la distanza da una Realtà adorata e irraggiungibile viene colmata attraverso uno stile esibito, una retorica “in falsetto”: retorica in Pavese rotonda, compiuta, quasi a compensare l’incompiutezza dell’esistenza; e che in Pasolini, il quale pure aveva una vocazione alla bella pagina, implode viceversa negli abbozzi non finiti, ma integrati e unificati dalla biografia (qualcosa di simile avviene in Vittorini, alter ego pavesiano altrettanto detestato da P.P.P.). La loro poesia, insieme impudicamente incollata al vissuto e irrimediabilmente manieristica, è appunto una poesia di “adolescenti”: ragazzi che sfidano la realtà adulta abitando ancora con la famiglia, e che nella loro terribile serietà conoscono il sarcasmo ma non l’umorismo, cioè la relativizzazione di sé.
La vicenda di Pavese si potrebbe riassumere in una parabola alla Saba, una “scorciatoia” giocata proprio intorno a questo legame vischioso e a questa vischiosa frattura tra letteratura e vita. Immaginate un giovane che tenta di trasfigurare le sue sconfitte esistenziali nel lavoro poetico – uno studente che vuole, fortissimamente vuole essere scrittore. Capita a tanti. Ma quasi tutti scrittori non sono, e a un certo punto devono (dovevano allora) prenderne atto. Lui invece non solo vuole esserlo ma lo è davvero, ne ha il talento. Il meglio che può capitare, verrebbe da dire. Invece è un destino diabolico. Perché gli altri, abbandonate le velleità, sono costretti ad affrontare le sconfitte, a imparare il mestiere di viverle e di superarle, mentre lo scrittore si illude di poter rimandare i conti: diventa solo formalmente adulto, e intanto continua a credere che un giorno i trionfi letterari gli permetteranno di riconquistare il mondo non letterario da cui si sente escluso. Ma poi, quando i trionfi arrivano, scopre l’ovvietà che tutti sanno e che anche lui sapeva, però in astratto: la riconosciuta maturità artistica non porta con sé la maturità tout court. Così, ecco le ultime parole: “Non scriverò più”.
In Pasolini l’avidità di riconoscimenti ha un segno diverso, come diverso – estrovertito e non introvertito – è il suo eros, il suo vitalismo. Tuttavia anche in lui ritroviamo una scissione, tra sessualità e affettività. Dice la “Supplica a mia madre”: “Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. // E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima”. Anche Pasolini, negli ultimi anni, vede sfumare ogni possibilità di rapporto con i soggetti delle sue proiezioni erotiche, ossia con la fonte di energia che alimenta gli sperimentalismi “manieristi” e i progetti di potere mondano (perciò approda a una forma arida che è forse la sua più vera, dopo quella delle incantate prove giovanili).
Quando cadono l’adrenalina della conquista e la speranza dell’amore, l’artificio estetico in cui ci si è murati non risarcisce nulla, non “serve” più: la vita si spoglia della letteratura, e di se stessa. In modi in parte simili e in parte speculari, questo è accaduto ai nostri due narcisi, che a lungo si sono specchiati in un loro doppio morto, che hanno fantasticato e corteggiato per decenni una fine tragica destinata a realizzarsi. Visti così, e astraendo dal resto, Pavese e Pasolini potrebbero quasi sembrare la stessa figura colta in due differenti fasi del moto ciclotimico. E c’è un verso pasoliniano che vale per entrambi: “A quarant’anni io sono come a diciassette”.
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