David Foster Wallace (foto LaPresse)

Annotare Bolaño, Wallace, Carrère

Matteo Marchesini

Brani narrativi eleggibili a sintomi di un tempo in cui una cronaca sempre più sanguinosa ha come rovescio una realtà virtuale sempre più invadente e fantasmatica

Per doveri antologici, sto scegliendo e annotando brani narrativi eleggibili a sintomi di un tempo in cui una cronaca sempre più sanguinosa ha come rovescio una realtà virtuale sempre più invadente e fantasmatica. Alcuni sono di Roberto Bolaño, David Foster Wallace, Emmanuel Carrère. In Bolaño, la Storia è risucchiata dall’immaginario. I massacri scivolano in una liquida sequenza di immagini “senza l’audio”, che nella sua insignificanza onirica, misteriosa e sopraffattoria non conosce attriti né confini. Dopo il golpe, è detto in “Notturno cileno”, era come se “ci fossimo svegliati da un sogno dentro la vita reale, anche se a volte la sensazione era diametralmente opposta, come se di colpo stessimo tutti sognando (…) nei sogni può succedere di tutto e uno accetta che succeda di tutto. (…) Ci muoviamo come se non avessimo ombra e come se questo fatto atroce non avesse importanza”. L’eccesso di eventi traumatici li rende astratti, intercambiabili come i poeti e i picari, e l’effetto domino della paratassi perentoria o delle anafore conferma che tutti i destini si equivalgono, che tutti precipitano verso una eterna ripetizione uscendo da un sogno per entrare in un altro. Il video scorre così veloce da cancellare gli spunti di comicità e tragedia prima che possano esprimersi: ma non si tratta di epoché postmoderna, perché sulle sagome elettroniche vibra l’ultrasuono dell’angoscia provocata da questa serialità.

 

I libri di Bolaño si leggono come poemi o raccolte di aforismi. Lo stesso vale per Wallace, che con le sue iperboli di letteratura e vita mostra come la cattiva infinità delle esperienze possibili tenda a generare una sofferenza smisurata. In lui, però, gli specchi e il citazionismo dell’eredità postmoderna rivelano le loro origini e le loro conseguenze sinistre attraverso la spirale ipotattica di un’autocoscienza su di giri, che secerne di continuo trucchi per evitare le nude relazioni umane: generosità esibizionista, sincerità ricattatoria, “metarapporto”, sadomaso… Al centro sta la depressione, segno di un narcisismo che rende soli perfino nel sesso, e che, come su altro piano in Siti, crea dipendenze illimitate perché prive di un argine trascendente. Questo inferno mentale “hobbesiano”, per usare un aggettivo-tic dell’autore, è rappresentato al meglio nei racconti-referto o racconti-teorema, di cui l’esempio più perfetto resta forse l’agghiacciante “Il suicidio come una specie di presente”. In “Infinite Jest”, invece, i pezzi virtuosistici non si giustificano del tutto, inseriti come sono in una struttura volontaristica da consultazione. Qui Wallace, anziché mediarla criticamente, asseconda con troppa autoindulgenza la propria inclinazione alla performance: parecchi dialoghi somigliano alle tesi di uno studente che vuole impressionare il professore, appena incorniciate dalle virgolette. Il motivo comico-distopico è pedante più del dovuto, cioè non abbastanza sregolato, e l’allegoria romanzesca non appare né economica né indispensabile. Le diverse prospettive, anziché rafforzarsi a vicenda, si depotenziano; e infatti le pagine dove Wallace torna al necessario corpo a corpo coi suoi spettri, come quelle su Kate Gompert, sembrano degli straordinari a parte.

 

Tutt’altra aria si respira dentro le opere di Carrère, che spiccano nell’ormai ampio filone di (auto)biografie e reportage romanzati. In prosa trasparente e “taoista”, il francese registra i suoi incontri con la cronaca nera o geopolitica, con la malattia, la natura o la fede (e anche qui la morte può annunciarsi sotto spoglie virtuali, “in modalità silenziosa” da tsunami). Perché e come ci capita un’esperienza estrema? Cosa fare se la vediamo nel prossimo, e che rapporto ha con la nostra quotidianità? Lo scrittore prova a rispondere a queste domande con molto tatto, ritraendosi nel ruolo della cavia. Mentre guardiamo scorrere le notizie planetarie dietro un vetro sempre pronto a incrinarsi, noi non sappiamo come reagire al loro appello insieme estraneo e minaccioso, perché non abbiamo più unità di misura e modelli di comportamento. Lui condivide questa perplessità ma la legittima, la rende feconda. Ne viene un senso di riconoscimento e di liberazione. Carrère ha il carisma ambiguo del guaritore. In una pagina di “Vite che non sono la mia” descrive il rito con cui Patrice rasa il cranio di Juliette devastato dalla chemio quando le loro bambine sono fuori, e ne paragona l’intimità a quella di “una coppia che si incontra per fare l’amore di pomeriggio”. Nei mondi estremi di Bolaño e Wallace, l’intera realtà sembra sintetizzata da un sesso parossistico e cupo. In Carrère, al contrario, il sesso redime: offre al resto della realtà una metafora vasta, dolorosa e accogliente, rivelandone quella radice profonda alla quale possiamo affidarci in una resa senza condizioni, perché la sua sapienza e la sua fatalità sorpassano qualunque progetto nostro.