Provaci ancora, Erri!
Radicalizzazione, riduzione a dualismo oppositivo, acquisizione di forza (a trazione vittimistica) da sproporzione. Sono le tre fasi dell’erridelucanesimo
Si riuniscono in un pub di Londra, votano la peggior scena erotica apparsa in un romanzo pubblicato nei dodici mesi precedenti, quindi, tra i lazzi e l’andirivieni di pinte, assegnano il “Bad sex award” motivando con poche, sapide righe: oltre a rendere un servizio utile alla collettività, quelli della Literary Review si divertono di sicuro, per questo riscuotono la nostra simpatia fogliante. Il premio ha un obiettivo chiaro, quello di segnalare il peggior esemplare sul mercato di scrittura sciatta, ridondante e “tasteless” in materia di sesso. Senza tremarella alcuna, in venticinque anni – tanti ne sono passati dalla prima edizione – il sardonico anglopernacchio ha insignito anche signori titolatissimi, gente del calibro di Tom Wolfe, Norman Mailer, John Updike, Jonathan Little. In Italia non sarebbe concepibile.
L’edizione 2017 è stata vinta da Christopher Bollen, americano di Cincinnati autore di “The destroyers”, ma l’anno scorso a trionfare fu “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca. Il quale Erri, venutolo a sapere, va detto che si comportò da gentiluomo: manifestò riconoscenza e dichiarò di confidare nella pubblicità inattesa che, a quel punto, ne sarebbe scaturita. Poi però l’asino della sua gentilhommerie cascò, ed Erri cedette all’impulso di giustificarsi. “E’ davvero difficile dire qualcosa di nuovo in materia di sesso”, guaì con una smagata rassegnazione che non gli si confà, per lo meno a fronte del gagliardo ribellismo che in altre circostanze lo irrora senza tregua, “soprattutto dopo un secolo come il Novecento, in cui gli scrittori si sono presi grandissime libertà su un argomento in precedenza tabù”.
Che per carità, sembrerebbe anche un’osservazione sottoscrivibile, ragionevole e quasi sacrosanta. Poi, però, uno la rilegge. Poi, però, uno ci ripensa. E diciamola tutta: non può che imbestialirsi, perché di una dichiarazione più fiacca, di una banalità più ingloriosa, di una sfiducia più avvilita, insomma, di una capitolazione più indegna da parte di uno scrittore che parla di scrittura, non se ne aveva memoria da un bel po’.
“Erri”, avrei voluto dirgli scuotendolo affettuosamente per il bavero, “stai scherzando? Erri, il tuo mestiere è trovare modo e parole! Erri, ti prego, fuggi da questa Waterloo!”. Non avendolo a portata d’affetto, ho studiato la sua dichiarazione e ho individuato il pistone che stantuffa e alimenta l’erridelucanesimo di ieri, di oggi e di sempre. Gira a tre fasi e funziona così: radicalizzazione, riduzione a dualismo oppositivo, acquisizione di forza (a trazione vittimistica) da sproporzione. Davide contro Golia, Erri contro il Novecento, “Il giorno prima della felicità” contro “Tropico del cancro”. In altre parole, cosa ci dice De Luca con quella difesa d’ufficio? Che se sono arrivati prima Lawrence e Bukowski non è colpa sua, e che nemmeno in futuro ci potrà fare molto giacché gli sfavori del calendario son tutti contro di lui: dopo costoro – forsennati demolitori di tabù a detrimento della letteratura erridelucana – non si potrà scrivere di sesso mai più. Il discorso, però, non ha alcun senso. Se fosse vero che l’aver raccontato con ricchezza di variazioni un dato tema renderebbe impossibile parlarne ancora, l’umanità intera dovrebbe essere annegata nel gorgo della reticenza definitiva da secoli, invece pare che – scrivente o no – sia in gran forma iperlalica; peraltro, a prendere Erri alla lettera (e al numero), il tema del sesso vanterebbe solo cent’anni di sfruttamento, dunque si può dire sia ancora in culla, se raffrontato ad altre Grandi Tematiche. Se fosse vero quel che dice De Luca non si darebbe più letteratura in generale, e non da ieri: come scrivere di Destini Ultimi dopo l’Apocalisse di Giovanni? Come scrivere di Guerra e Uomini dopo l’Iliade di Omero? Eppure ci hanno provato, riuscendoci, Cormac McCarthy e Norman Mailer. Questo perché chi scrive parte sempre, in un certo senso, da un irragionevole – ma ragionevolissimo – zero. Uno zero universale e individuale, temporale e spaziale, letterario ed esistenziale. E da una certezza: il fatto che qualcosa sia stato già detto non ha mai impedito a nessuno di dire. Di dire di più. Di dire meglio. Di dire altrimenti. Il punto è solo uno: riuscirci o no.
“L’essere femminile non è mai stato intrecciato alla mia esistenza”, ammetteva Flaubert in una lettera a George Sand nell’ottobre del 1872. Eppure, nonostante la poca esperienza personale e l’incombere, alle sue spalle, delle ombre letterarie di Catherine Earnshaw, Elena di Campireali e Penelope (per dirne tre), è proprio grazie a un possente ritratto femminile che ha cambiato per sempre la storia della letteratura e della nostra vita.
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