Il bambino del treno
diPaolo Casadio, Piemme, 240 pp., 17,50 euro
E’ uscito nel giorno della memoria il racconto senza pause di Paolo Casadio. Un diario ingiallito ritrovato per caso, “poche pagine, ma c’era tutto il mondo perduto dell’Appennino”. Da quel manoscritto un romanzo che scuote fino alle lacrime. C’è un paesaggio geografico che avvolge la vicenda, la domina e la sovrasta con scenari rurali, mulattiere, sentieri dispersi tra le montagne dalle cui pieghe affiora timidamente l’aspra fierezza dei suoi pochi abitanti. Fornello è una stazione sperduta nel tratto dell’Appennino tosco-emiliano che da Faenza giunge a Firenze, ed è lì, in quella stazione senza paese, che una mattina del 1935 Giovannino Tini prende servizio come capostazione. Arriva con una bella e giovane moglie incinta, un cane di nome Pipito, due biciclette e le masserizie. Il contorno storico e politico è inizialmente sfumato, quello che interessa all’autore sono i personaggi, nella loro composta dissolvenza di ispirazione fogazzariana. L’autore, volutamente, si limita a quel piccolo mondo racchiuso in una valle, dove Giovannino sente di trovare rifugio anche dalle avvisaglie della guerra, lì dove il silenzio rimbomba e l’aria è immobile quanto il ghiaccio. La nascita di Romeo dopo una manciata di pagine muta ogni possibile previsione. E’ lui l’unica voce in grado di frantumare quel silenzio, anche per la simbiosi totale che si instaura con sua madre Lucia, immagine dolcissima e potente. La guerra è scoppiata ma Fornello sembra esserne immune fino al giorno in cui si ferma un convoglio diretto ad Auschwitz. Quando il treno ripartirà nessuno sarà più come prima. Il tratto letterario di Casadio evoca la cinepresa di Fritz Lang, la storia rarefatta prende vigore e irrompe tra le righe, spariglia le lettere come quel treno carico di disperazione, che insiste crudele nella sua affannosa risalita. Spariglia le vite. Ma a Fornello i personaggi cambiano colore, il treno cambia binario, Giovannino assume l’autorità di un gerarca, i portelli della locomotiva si aprono, gli sguardi si intrecciano e la vita ricomincia a pulsare, solo per un attimo. Per pochi istanti i soldati sono tornati a essere uomini, si sono capovolti i ruoli “che la stupidità degli eventi aveva stabilito, superato i confini tra invenzione e verità”.
Il bambino del treno è un coup de coeur ininterrotto, raccontato con una grazia e un registro linguistico fuori dal comune, a tratti in dialetto romagnolo per dare più enfasi al narrato. Ma è prima di tutto un racconto d’amore, di sopravvivenza, di mani graffiate, di lavoro duro e poi di stupore, di sgomento. Il finale si intravede ma quando arriva è scioccante, ingiusto, beffardo. “Che cos’è per te la felicità?”, “E’ una stazione con dentro la mia famiglia e un cane”. Il tempo sembrava immobile nella valle faentina dove gli inverni passano sommersi dalla neve e le estati sono cristalline ma il respiro della montagna è troppo forte per opporsi. Non c’è sempre una ragione che dia un senso a ogni cosa ma “ogni vita resiste alla morte” perché è per questo che è stata creata.
IL BAMBINO DEL TRENO
Paolo Casadio
Piemme, 240 pp., 17,50 euro