Malacarne
di Annacarla Valeriano, Donzelli, 220 pp., 28 euro
Il manicomio, quel luogo in cui l’anormalità veniva controllata e gelosamente custodita, imbavagliata, persino legata a letto o su una sedia come i corpi dei suoi ospiti, uomini e donne lì rinchiusi non sempre perché “pazzi”, ma semplicemente perché “diversi o squilibrati”, perché “figure di transizione fra lo stato normale e lo stato patologico” – come li definì poi il regime fascista – inadatti a condurre una vita ragionevole. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento, gli eccentrici, gli originali e i pazzi morali, privi di sentimenti, di affetti ed emozioni, segnati da una condotta anormale che li rendeva incapaci di rispettare le regole più elementari del vivere in società, finirono lì e con loro tante donne, non perché malate, ma perché “anormali”, stando agli inaccettabili stereotipi dell’epoca che le considerava “piante intisichite”, divorate dal tarlo della degenerazione e destinate a farsi trascinare “dalla turbinosa corrente della depravazione e del disonore”.
A Teramo, in Abruzzo, l’ospedale psichiatrico intitolato a Sant’Antonio Abate, uno dei più grandi e noti manicomi del centro-sud, è rimasto attivo fino al marzo del 1998, nonostante la legge Basaglia fosse stata promulgata venti anni prima. Migliaia furono le donne ospitate negli oltre ventimila metri quadrati di quella struttura. Il suo archivio è stato aperto come uno scrigno prezioso dall’autrice di questo saggio, Annacarla Valeriano, e quel che ne è venuto fuori è un tesoro fatto di storie colme di dolore e speranza provate da migliaia di persone passate per le camerate di quella struttura sita nel cuore della città. Gli ospedali psichiatrici, spiega l’autrice, erano un vero “sistema manicomiale” concepito “per assistere la follia”, ma soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità che peggiorò proprio con il fascismo che vi fece rinchiudere la “malacarne”, come ricorda il titolo di questo libro, una categoria in cui finirono soprattutto le donne che si discostavano dall’ideale fascista della sposa e della madre esemplare e che, con la loro condotta, le loro esuberanze e la loro inadeguatezza fisica, rischiavano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello stato. Donne come Giovanna – una delle tante di cui ci viene raccontata la storia con foto in bianco e nero ritrovate solo di recente – “ben pasciuta e di colorito roseo”, lì rinchiusa solo perché bugiarda, egoista e dedita al turpiloquio “qualche volta teatrale e commediante” – o come Adelaide, lì solo per aver bisticciato col fidanzato. Storie che lette oggi fanno vergognare e che fanno essere questo libro ancora più necessario per restituire – in qualche maniera – giustizia a chi in quelle mura non l’ha mai avuta, facendo in modo di non ripetere, nel presente, gli stessi errori sotto forme diverse.
MALACARNE
Annacarla Valeriano
Donzelli, 220 pp., 28 euro
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